Nicoletta Bidoia

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Il poemetto di Nicoletta Bidoia, incentrato sulla figura di Vaslav Nijinsky, è un esempio eccellente di come si possa far poesia intorno alla biografia interiore e alla dimensione estetica di un artista, che ha disincarnato l’umano sentire arrivando a guardare fin là dove solo una poesia vivente può arrivare: a vedere “il dolore che si imbosca nelle parole”. Dunque provare il segreto dell’oscurità attraverso un patimento reso muto dalla lingua, ma con la forza di una visione impetuosa. La voce di questo poemetto ha il suono che parte non dalla musica, ma dalla visività della danza: da un corpo e un sentimento irrefrenabili, dove il sollevarsi da terra è fatto della stessa sostanza che ha un prodigio: non il balzo, ma l’ascesa verso una forma d’esistenza fisicamente e cognitivamente sempre sospesa. Ed è questa la materia che la scrittura dell’autrice riesce a far aderire a una vita, che viene resa annullando il racconto, in favore di una moltitudine di sensi che ritmano nell’intimo del linguaggio; e lì si intersecano e danno alla significazione propria della poesia il cammino plurimo che potremmo definire biografia di una danza. Arte che opera non solo con l’evidenza del movimento, ma, più profondamente, cura il silenzio come suprema forma di parola e figura. Così il senso è messo a nudo, perdendo se stesso ma ottenendo, superando il significante della fisicità, di sciogliersi in quel niente che, come precisa Nicoletta Bidoia, “resta l’enigma dolente che strema”. Perché l’essere, come la poesia, non può interpretare se stesso, non è un personaggio. Può solo (ma con grandissimo valore) mostrare ciò che è in ciò che è: senza intermediazione alcuna.

 

***

Sono in corsivo nel testo le frasi di Vaslav Nijinsky tratte dai suoi Diari, nelle traduzioni di Gabriella Luzzani e Maurizia Calusio (entrambe per Adelphi).

 

I

ho la semplicità che hanno i cieli (Osip Mandel’štam)

 

C’era mia madre e la dura fame

e Bronja e Stasik, fratello folle,

in anticipo di poco sulla mia pazzia.

E c’erano i miei occhi tartari ‘giapponesi’,

i miei zigomi derisi, le carni isolate

dai compagni che staccavano dalle loro

le mie trepidazioni. Io piango tanto.

Io piango in maniera

da non dar fastidio a nessuno.


 

Già da allievo miracolavo nel salto,

perché se parto alla volta del cielo

è per restarvi a lungo a mezz’aria.

Non conosco altro azzurro

se non quando prolungo l’incontro

là in alto

e mi sospendo, vi penso, mi calmo.

E dopo ogni indugio

ritorno a quel fuoco, plano,

scendo in me

come un perdono.
 

(…)
 

Cupo, ottuso, dicevano, spaesato.

Non parla, non sa parlare,

balbetta. Ed è vero,

tacevo e in ogni tacere scandivo

la cantilena dei timidi,

i monosillabi di Dio.


 

II

Sono accusato di un crimine contro la grazia. Credo di poter ballare ‘graziosamente’ in balletti altrui se la grazia è richiesta, e potrei comporre balletti graziosi io stesso se volessi. Il fatto è che detesto la poesia convenzionale “dell’usignolo e della rosa”; le mie inclinazioni sono primitive.

Vaslav Nijinksy in ‘Daily Mail’ del 12 luglio 1913
 

In tanti cercano di scoprire il segreto dei miei salti, non si capacitano, parlano perfino di levitazione. “Vive in aria” dice di me il basso Šaljapin, “del tutto libero dai vincoli della gravità”, insiste Cocteau, che dietro le quinte cerca una meccanica nascosta dentro le mie scarpette che spieghi l’arcano e metta il cuore in pace.

A chi mi chiede come io riesca a saltare in quel modo rispondo: “Non è difficile, basta fermarsi un po’ in aria”. Vorrei però che fosse chiaro: io non sono un saltatore, sono un artista.
 

Poi mi vedono in Petruška, il burattino che si sente oppresso e che soccombe. Quando muoio in scena il mio spirito si libera sopra il teatrino della fiera e tormenta il mio aguzzino. Petruška è uno come me, non può far altro. Così per Stravinsky sono “la maschera d’attore più potente” e per Charlie Chaplin sono “ipnotico, divino”. Dio della danza infatti mi chiamano, ma non mi piacciono le lodi, non sono mica un ragazzino.

(…)


Nicoletta Bidoia è nata a Treviso nel 1968 e ha pubblicato i libri di poesia Alla fontana che dà albe, quasi una preghiera ad Alda Merini (2002), Verso il tuo nome (2005, con prefazione di Alda Merini), L’obbedienza (2008, con prefazione di Isabella Panfido) editi da Lietocolle, e Come i coralli (2014) con Edizioni La Vita Felice.

Nel 2013 è uscito per Edizioni La Gru il racconto Vivi. Ultime notizie di Luciano D.

Sue poesie, apparse anche in raccolte e riviste e più volte trasmesse a Rai Radio3, sono state tradotte in spagnolo in Jardines secretos, Joven Poesìa Italiana, a cura di E. Coco (Sial, Madrid, 2008).

Con la cantautrice Laura Mars Rebuttini ha realizzato lo spettacolo Un piccolo miracolo, partecipando ad alcuni festival italiani di poesia.

Compone anche collages e teatrini di carta (reperibili in rete su youtube o instagram): con alcuni di questi ha illustrato il numero 41 di “Carte nel vento” https://www.anteremedizioni.it/gennaio_2019_anno_xvi_numero_41