Adelio Fusé

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La parola è l’immagine che si stacca dalle cose vere.

La parola è essa stessa una cosa, naturalmente. Il segno alfabetico, con la sua pelle di grafite, d’inchiostro, di pixel, ha una sua storia in ambito estetico. Tutte quelle modalità di lavoro sulla parola che si riappropriano del circuito mano-pensiero (o voce-pensiero) trovano le loro motivazioni nella consapevolezza che la parola è luogo privilegiato della produzione ideologica e simbolica ma consiste anche di autonomi valori visuali o fonetici.

Fusé si sofferma sull’ambiguità dei significati: la parola designa, la parola allude, la parola “osserva”. E quando nella sosta osserva e indugia lo scarto cresce.

Fusé dice che si può scrivere (di qualcosa) dopo molto, quando le cose sono ombre.

O molto prima, quando ancora fa buio. Come Emily Dickinson possiamo scrivere Buongiorno – Mezzanotte.

 

 

La parola è l'immagine che si stacca dalle cose

(dai Taccuini di Aldous Canti)

 

Talvolta penso di sopprimerla. Lei sa quello che mi passa per la testa. è la prima a saperlo. Rinuncia allora a inseguirsi. Si arresta e contempla le poche parole, sue consanguinee, sparse fra buffi segni che non coprono mai abbastanza. Il misfatto non si cancella.

Lei – la parola – simula la vittima che nel gioco implora il carnefice. Ne ha uno tutto personale. E lo sfida in una terra esposta ai venti, dal clima mutevole. Cerca una via di fuga e si camuffa, forse meschina, forse scaltra. Tutto questo per salvarsi la pelle. “Ma quanto vale la tua pelle?” le chiedo. “E la tua?” mi fa lei, pronta. L'autore è in sua balia.

Desiderare le prove peggiori pur di avere materia prima per la mano che sgrezza e tritura. Sei cinica, o parola. Insensibile alle ragioni. Perché raccontare questi avvenimenti e non altri? Qui o là, io o un altro. Non ti curi delle differenze. Qualità alta o melmosa, personaggi virtuosi o assassini, autore zelante o inaffidabile. Il tuo stomaco ospita qualunque cosa e chiunque e il suo contrario. Lì dentro ha casa la coincidenza degli opposti. Affamata come sei, reclami nutrimento. Il resto è chiacchiera, neppure da servire come stuzzichino.

La parola che si fa scrittura è porto franco o discarica?

Ma con quali parole sfamare – sfamarmi? La mia dispensa è senza provviste. Sì, c’è scatolame, poca roba, quasi niente. Cristo, siamo oltre la soglia del consumo. Cibo alla partenza già deprezzato, ora avariato.

 

Sempre la domanda, oziosa: “Che ne è delle cose?” Le cose sono laggiù, lontane. Fingo di non sapere e proseguo. La regola del gioco è questa e io la rispetto. Ma la scrittura, lei, viaggia separata dalle cose. E quando nella sosta osserva e indugia lo scarto cresce.

La parola è l'immagine che si stacca dalle cose vere.

Dovrei raccontare. Il racconto come dovere n. 16.790 (non ridete: ho conteggiato con scrupolo). Le parole, narcise onaniste, aprono la bocca e si divorano. Sanno come mangiarsi. In mancanza di cibo la bocca si fa cibo.

Fare presto. Le cose si scrivono hic et nunc o partono con il loro saluto (bye-bye: vedi – proprio tu, che sei l'autore –, come agitano delicate manine e candidi fazzoletti?). Anzi, neppure ti inviano un segnale. Non ne hanno il tempo. E tu alzi le spalle. Che sia pure così. Sai che puoi poco. Si perdono comunque, le cose. Forse che ritornano? Andiamo, signore e signori, siamo gente di mondo. Il nostro uovo si è schiuso parecchio tempo fa, e parecchio tempo fa la nostra testolina, chiedendo al collo lo sforzo massimo, ha fatto la sua capatina fuori. Come recuperare la prima occasione? Non recuperandola. Non ci sono macchine del tempo. Le occasioni svanite hanno il sesso degli angeli. E le parole, soverchiate dal mistero, annaspano spente.

Puoi odiare l’orologio, caro autore. Non curartene. Non possederne uno. Metterlo fuori uso. Spedirlo alla gogna. Quello ha modelli simili: fratelli, cugini, un largo parentado. Puoi fare incetta di ogni modello in commercio, distruggere tutti i depositi, tutte le fabbriche. Avrai pur sempre l’orologio che è il tuo corpo. In forma di segnatempo interiore o bene in vista sulla tua pelle. (Anche noi abbiamo i nostri anelli, come gli alberi.) O In forma di mano che scrive, certo. C’è sempre una lancetta che scatta in avanti, anche se il tuo orologio susperstite non la prevede. In ogni caso il tempo balza in là. E a ogni suo balzo, visibile oppure occulto, tu rimani al palo. Scrivi, presto, se non vuoi regredire all’alba del mondo, mentre il mondo va oltre. Oh, si può scrivere dopo molto, quando le cose sono ombre. Ma come restituire spessore, sapore? La polvere compromette la visione e ti fa tossire. Croste sommate a croste e il tuo raschiare che non si arrende. Quando ti spiani la strada, risaltano le cicatrici. E le residue parti ancora intatte sono spaiate: i compagni di vita sono ormai di morte. Nessuna sostanza per il gusto, solo i danni del rimpianto.

 


Adelio Fusé (1958) vive a Milano e lavora nell’editoria. Ha pubblicato saggi su Sade, Kafka, Sartre, Handke, Eno (Materiali Sonori-Auditorium, 1999), i romanzi North Rocks (Campanotto, 2001) e L'astrazione non è la mia passione principale (Manni, 2018), i libri di poesia Il boomerang non torna, Orizzonti della clessidra distesa, Canti dello specchio bifronte, L’obliqua scacchiera (Book Editore, 2003, 2005, 2009, 2012, segnalati al Premio “Lorenzo Montano”), La veglia del sonnambulo(Book Editore, 2016; candidato al Premio “Camaiore” e finalista al Premio “Lorenzo Montano”, 2016). Scritti critici, testi in prosa e in versi sono apparsi su riviste (“alfabeta”, “auditorium”, “Atelier”, “Il Segnale”, “La Ginestra”, “Legenda”, “Lengua”, “Sonus”, “Tratti”) e online in siti letterari (“Carte nel Vento/Anterem”, “Poetarum Silva”, “Vico Acitillo 124-Poetry Wave”). Ha fatto parte della direzione di “Legenda” (Tranchida, 1988-1995). Collabora con artisti e musicisti.  Ha ottenuto un riconoscimento al Premio “Riccione per il teatro” (1981). Cura una rubrica di musica e poesia sul sito altremusiche.it.