Giulia Martini

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In questa prova saggistica lo sguardo acuto di Giulia Martini coglie la presenza del termine “gora“ in quattro grandi testi poetici e da qui costruisce un saggio sull‘abbandono, sul senso di estraneità, in cui convergono Dante, Pascoli, Montale e Luzi. Le connessioni trovate da Giulia Martini sono straordinarie e arrivano a superare l’assunto iniziale; da uno stato d’animo di abbandono, di solitudine, di perdita, si cambia piano: “I quattro testi sembrano ritrovarsi su un altro livello ancora, afferente non più a uno stato (d’animo, a un ritrovarsi lì come una cosa), ma a un verbo, e il verbo è guardare”Il passaggio avviene attraverso l’uso rigoroso e puntuale delle citazioni, ma soprattutto grazie al sentire poetico dell’autrice. Grazie a questo sentire poetico Giulia Martini ci conduce a un terzo, ulteriore livello, come in un’ascesa dantesca. La poesia, alla fine, è proprio questo guardare la rivelazione improvvisa delle cose.   


 

La gora e l'abbandono

 

Mi trovo qui a questa età che sai, né giovane né vecchio, attendo, guardo questa vicissitudine sospesa; non so più quel che volli o mi fu imposto, entri nei miei pensieri e n’esci illesa. (Mario Luzi, da Notizie a Giuseppina dopo tanti anni).1
 

La parola «gora» ricorre in quattro testi indimenticabili della nostra letteratura: l’ottavo canto dell’Inferno di Dante, Lavandare di Pascoli,2 Notizie dall’Amiata di Montale3 e Presso il Bisenzio di Mario Luzi.4 Ma se tale occorrenza è il primo punto di contatto, questi quattro testi si riuniscono più profondamente, nel grande tema dell’abbandono.

L’ottavo dell’Inferno è il canto in cui Dante si appressa alla città rossa di Dite, in uno scenario non molto diverso da quello di Notizie dall’Amiata: «Ma il passo che risuona a lungo nell’oscuro / è di chi va solitario e altro non vede / che questo cadere di archi, di ombre e di pieghe»; e ancora le «architetture / annerite», le «vampate di magnesio», «il lungo colloquio coi poveri morti», «la morte che vive».

Qui Dante viene apostrofato dallo spirito di Filippo Argenti, che gli si fa incontro e gli domanda chi è:

Mentre noi corravam la morta gora,

dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?»

Domanda che prelude alla vera e propria accusa di estraneità, di cui Dante verrà tacciato in capo a neanche cinquanta versi:

Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente

dicean: «Chi è costui che sanza morte

va per lo regno de la morta gente?»

1 Primizie del deserto, 1952.

2 Myricae, 1891.
3 Le occasioni, 1951.
4 Nel magma, 1963.

Ed è lo stesso tipo d’incontro e la stessa accusa di estraneità con cui si apre Presso il Bisenzio di Mario Luzi:

La nebbia ghiacciata affumica la gora della concia
e il viottolo che segue la proda. Ne escono quattro
non so se visti o non mai visti prima,
pigri nell’andatura, pigri anche nel fermarsi fronte a fronte.

Uno, il più lavorato da smanie e il più indolente,

mi si fa incontro, mi dice: «Tu? Non sei dei nostri.

Non ti sei bruciato come noi al fuoco della lotta

quando divampava e ardevano nel rogo bene e male».

 

Ma l’ottavo dell’Inferno è anche il canto in cui Dante rimane senza guida, quando Virgilio si allontana per trattare coi diavoli, con quel verso memorabile, «Così sen va, e quivi m’abbandona».

E non può che trattarsi di una solitudine cosmica, come cosmica sembra la solitudine di quel «tavolo / remoto» in una «sfera lanciata nello spazio» di Montale; analogamente anche l’«aratro senza buoi» di Pascoli, oggetto di uso quotidiano, viene subito caricato di una valenza universale e diventa emblema di una solitudine assoluta – che difatti si trasferisce subito alla donna che intona cantilena in chiusura, abbandonata «come l’aratro in mezzo alla maggese». Inoltre, proprio l’attività a cui il testo fa riferimento, lavare i panni, è una mise en abyme dell’oblio, del rapporto fra passato e presente: lavare una macchia è anche cancellare un trascorso, riazzerare il vissuto.

Senza contare che i due testi condividono lo stesso tipo di enjambement: «tavolo / remoto», «pare / dimenticato»: un enjambement aggettivale, che pone l’accento sulla solitudine dell’oggetto, il tavolo, l’aratro.

Quindi la gora, l’estraneità, l’abbandono – eppure la storia non finisce qui. I quattro testi sembrano ritrovarsi su un altro livello ancora, afferente non più a uno stato (d’animo, a un ritrovarsi lì come una cosa), ma a un verbo, e il verbo è guardare. Chi scrive infatti si fa spettatore di un quadro naturale, che inizia a descrivere e continua finché una nebbia non gli obnubila la vista.

L’ottavo dell’Inferno si svolge in una palude nebbiosa, e quando Dante domanda a Virgilio l’entità del segnale che scorge da lontano, Virgilio risponde che lo vedrà da solo, purché le esalazioni che salgono dal terreno non glielo impediscano («se ‘l fummo del pantan nol ti nasconde», VIII, 12).

In Pascoli, questo fumo diventa «vapor leggero»: «Nel campo mezzo grigio e mezzo nero / resta un aratro senza buoi che pare / dimenticato nel vapor leggero».

In Montale, questo vapore leggero diventa «fumate morbide»: «Le fumate / morbide che risalgono una valle / d’elfi e di funghi fino al collo diafano / della cima m’intorbidano i vetri».

In Luzi infine, sarà «nebbia ghiacciata»: «La nebbia ghiacciata affumica la gora della concia / e il viottolo che segue la proda».

Questo impedimento visivo sembra un pretesto per far scattare l’udito, che finirà con l’essere il senso privilegiato per continuare la descrizione di partenza.

 

Così Inf. IX, 4-6:

Attento si fermò com’uom ch’ascolta;

ché l’occhio nol potea menare a lunga

per l’aere nero e per la nebbia folta.

La scarsa visibilità di «fuori» sarà per Montale l’occasione di descrivere il suo interno:

Le fumate

morbide che risalgono una valle

d’elfi e di funghi fino al collo diafano

della cima m’intorbidano i vetri,
e ti scrivo da qui, da questo tavolo

remoto, dalla cellula di miele

di una sfera lanciata nello spazio

Stesso discorso per Luzi, dalla cui «nebbia ghiacciata» «escono quattro» e gli rivolgono la parola.

Il caso più evidente di questo passaggio rimane però Lavandare, madrigale diviso in due terzine e in una quartina, la prima terzina intermante dedicata alla vista, la seconda all’udito:

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene.

Ma proprio Lavandare permette una considerazione ulteriore: che c’è anche un terzo tempo, o meglio, una terza modalità percettiva, che viene dopo la vista, che viene dopo l’udito – un altro tipo di sentire, quasi “miracoloso”: e il miracolo è proprio la lunga cantilena, vale a dire, la poesia stessa.

Questo terzo sentire sarà adoperato nei quattro testi (ennesima e più profonda comunanza) in un contesto d’attesa, per rimarcare la speranza che arrivi qualcuno che sta tardando.

Dante:

Attento si fermò com’uom ch’ascolta;
ché l’occhio nol potea menare a lunga
per l’aere nero e per la nebbia folta.
«Pur a noi converrà vincer la punga»,

cominciò el, «se non... Tal ne s’offerse.

Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!».

 

Pascoli:

lunghe cantilene:

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!

Quando partisti, come son rimasta!

 

Montale:

Le fumate

morbide che risalgono una valle

d’elfi e di funghi fino al collo diafano

della cima m’intorbidano i vetri,
e ti scrivo da qui, da questo tavolo

remoto, dalla cellula di miele

di una sfera lanciata nello spazio –

e le gabbie coperte, il focolare
dove i marroni esplodono, le vene

di salnitro e di muffa sono il quadro

dove tra poco romperai. La vita

che t’affabula è ancora troppo breve

se ti contiene! Schiude la tua icona

il fondo luminoso. Fuori piove.

 

Luzi:

Ma uno d’essi, il più giovane, mi pare, e il più malcerto,
si fa da un lato, s’attarda sul ciglio erboso ad aspettarmi

mentre seguo lento loro inghiottiti dalla nebbia. A un passo

ormai, ma senza ch’io mi fermi, ci guardiamo,
poi abbassando gli occhi lui ha un sorriso da infermo.
«O Mario» dice e mi si mette accanto.

Sempre in Luzi, poco più avanti, «il più giovane» dice questa cosa, che sembra d’importanza capitale:

poni mente a che cosa questo tempo ti richiede,

non la profondità, né l’ardimento,
ma la ripetizione di parole,
la mimesi senza perché né come

dei gesti in cui si sfrena la nostra moltitudine

morsa dalla tarantola della vita, e basta.

Cosa richiede questo tempo? La ripetizione di parole, la mimesi dei gesti – vale a dire, «tonfi spessi e lunghe cantilene». Tout se tient.

In altre parole. Il primo obiettivo sembra il mondo: la realtà, l’onore del vero; ma il significato è fumoso, non si vede tanto bene – di qui la necessità di affidarsi al significante (l’ipotesi della relatività linguistica di Sapir-Whorf: il mondo si presenta come un flusso caleidoscopico di impressioni che il sistema linguistico tenta di carpire). Capire è il miracolo della poesia, la rivelazione improvvisa delle cose, l’apparizione attesa del senso.

Quello che sembra è che questi testi non siano mai, più o meno consciamente, esonerati dalla loro stessa poetica, da una riflessione che ricada sui meccanismi che li hanno generati.

E la poesia sembra essere proprio questo, l’attesa di un miracolo per cui uno è stato a lungo all’erta: che qualcuno esca dalla nebbia e parli, che un suono ne preceda l’apparizione.

Infine, in Un brindisi5 Luzi fa una rilettura pazzesca della rossa città di Dite, e parla degli «occhi troppo grevi», del «cuore umano gonfio ed assordito» ma anche di «calme primavere inattuate».

Ora, una primavera è inattuata quando non dà frutti, e non dà frutti un campo “a maggese”: il maggese infatti è un anno di riposo, in cui il terreno viene arato e mosso, per restituirgli la fertilità.

Il maggese è una «vicissitudine sospesa».

5 1946.


Giulia Martini è nata a Pistoia nel 1993 e vive a Firenze. Dopo una prima laurea in Lettere moderne, con una tesi su La figlia di Babilonia di Piero Bigongiari (Firenze, Parenti 1942), sta conseguendo una laurea magistrale in Filologia con un commento a Pigre divinità e pigra sorte di Patrizia Cavalli (Torino, Einaudi 2006). Ha partecipato al XXI Congresso dell’Associazione degli Italianisti con uno studio su Donna di dolori di Patrizia Valduga (Milano, Mondadori 1991). A gennaio 2015 ha raccolto 38 componimenti sotto il titolo Manuale d’Istruzioni (Roma, Gruppo Albatros Il Filo); a gennaio 2016 sono uscite Ventitré poesie sul mensile «Poesia»; altre, sulle riviste «Gradiva» e «Pelagos» e sulle antologie Secolo donna 2017: Almanacco di poesia italiana al femminile (Francavilla Marittima, Macabor 2017) e Un verde più nuovo dell’erba. Poetesse Millennial degli anni 90 (Milano, LietoColle 2018). Ha partecipato con successo a numerosi concorsi letterari e sta dedicandosi a una seconda raccolta poetica, che prenderà nome Coppie minime.