Francesco Vasarri

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Leggendo queste pagine la prima osservazione è quanto, in queste poesie, lingua e suono siano soggetto e oggetto, selezione e combinazione, paradigma e sintagma intrecciati in un unico significante che include la natura in un ritmo e il ritmo in natura. La parola poetica si carica di materia organica in osservazione concreta, quasi primordiale. Cantare larve bastevoli disfatte e arse può sembrare un azzardo sperimentale, ma è invece una necessità sostanziale che nasce dalle cose che ci sono e che nel loro movimento devono essere dette. Vasarri, in questo modo, porta la scrittura fin dentro il corpo della nominazione, dove la carne spoglia respira e ne sente l’odore. Perché solo una lingua poetica che si sviluppa e si insinua in un reale pastoso e contorto, è capace di tanto. Il senso che ne emerge è un rivolgimento continuo, alla ricerca del vero che sta nel poco: nella incommensurabile e fondante povertà della voce iniziale: ouverture creaturale al di qua e al di là del principio. Il fare di questi testi sembra così scaturire da un conglomerato di segni che vanno sciogliendosi in musica: un canto vocalico che rimescola la distinzione tra fonia e grafia, andando a prendere ciò che sconcerta; non per stupire il lettore, ma per dare nuova riconoscibilità alla “crosta muta”, al suo generarsi in un dire quasi fosse “un ultimo soffio di fiato”. E questa è la conseguenza estrema in cui la poesia può riprendersi ciò che le spetta: fossero anche solo “poche sillabe”, o una larva di senso in proteiforme materia, in tensione oltre se stessa affinché “avanzi la vita”.

 

 

Falso esergo del lupo

 

Non c’è.

Non l’abbiamo

mai visto.

Confitto

nella lisca del male.

Per generosa confisca.

 

[E anche se ce l’avessimo…

o se lo fossimo noi…

correi, rodendone l’osso…

Domesticarlo. Mai.]

 

 

Da “Fioretti e variazioni”

 

Tutto quel gergo di anime.

 

Almeno servisse a qualcosa.

Almeno potesse decidersi

che dopo le spine,

la rosa.

 

 

 

Da “Diminuendo”

 

***

 

Consèrvati dovunque

levigato in miriade,

scheggia, spina e prepuzio.

 

Per tornare a chiudere il cerchio,

a riattizzare l’inizio.

 

[Ma quanto perdi, mantice fioco, fiato.

 

Come non s’è infuocato, non prende fiamma

nella sua solitudine il rovo.]

 

 

***

 

Io c’ero. In culto. In fissità d’immagine.

Lacrima d’io, voce travolta, fronda

contro la quale battere in rivolta.

E con che diligenza vi battevo.

Decisamente io vi andavo a sbattere,

vi ci sbattevo, sì, io lì sbattevami.

 

Che dio manchi in vertigine.

E faccia fuoco vergine.

 


Francesco Vasarri è nato a Bagno a Ripoli (FI) nel 1987. Vive a Firenze, in Oltrarno. Dottorando in italianistica presso l’Università degli Studi di Firenze con una tesi dedicata all’entomologia nella letteratura italiana contemporanea, ha pubblicato, su rivista, in atti di convegno e per volumi collettanei, diversi saggi sulla poesia del secondo Novecento (Caproni, Cavalli, Lamarque, Merini, Parronchi, Valduga, Zanzotto). Ha tenuto, nell’ambito dei corsi universitari di Anna Dolfi ed Ernestina Pellegrini, lezioni di didattica integrativa sulle poetesse del secondo Novecento, su Caproni, Sereni, Gadda e Landolfi.

Ha partecipato, con suoi testi o letture commentate, a manifestazioni pubbliche (Giornata della Poesia, Fiorano Modenese – MO, 2008 e 2014; Perché poeti in tempo di povertà, Firenze, 2016 e 2017). Dal 2017 collabora al Festival internazionale di poesia Voci lontane, voci sorelle, Firenze.

Nel 2008 si è classificato secondo al concorso Ottottave; nel 2014 primo per la sezione Inediti (ex aequo con Antonella Ortolani) al XX Premio nazionale di poesia Alessandro Contini Bonacossi.

Ha esordito nel 2016, per la collana «Opera Prima» di Anterem, con il libro di versi Don Giovanni all’ossario.