n. 68, Pensare l’Antiterra

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«Anterem» giugno 2004

Quanti negano che la terra sia posta al centro dell’universo, affermano che ruota intorno al centro; e neppure soltanto la terra, ma anche un’altra terra, contrapposta alla nostra, cui danno il nome di “antiterra” ...
Aristotele

Si trova l’uomo a vivere nel mondo,
Proteso in alto, e così è del tempo,
Che nel mutare è pur vero nel profondo,
La durata giunge con il cambiamento;
Perfezione così è unita a questa vita,
E il tendere dell’uomo a lei si adegua.
Scardanelli

Un segno siamo, senza spiegazione
siamo senza dolore e quasi abbiamo
perso la lingua in terra straniera.
Hölderlin

Lo spazio assoluto si nega alla misura e all’appropriazione. Per essere nominabile, deve diventare uno spazio relativo, assumere una sua delimitazione.

La definibilità conferisce allo spazio una dimensione geometrica e una filosofica. La misura dello spazio diventa in tal modo equivalente alla misura delle ragioni umane che spingono l’uomo ad adottare quello stesso spazio come un proprio luogo.

Ecco in cosa consiste il nostro compito: dare limiti e rendere questi limiti pieni del respiro che ci serve. E farli sorvegliare da occhi che vedano al di là di ciò che c’è da vedere: dentro di noi. Perché, come indica Wittgenstein, per tracciare al pensiero – e dunque allo spazio – un limite, è necessario pensarne entrambi i lati. La definibilità impone di pensare anche quel che pensare non si può.

Uno spazio fatto scendere dalle altezze di una riflessione incontaminata – staccato da quelle altezze e rimesso sulla terra, ma «dietro il paesaggio», come indica Zanzotto – diventa un territorio dov’è possibile vivere: l’habitat proprio dell’uomo.

E diventa nominabile: l’Antiterra

Accedere all’Antiterra presuppone la consapevolezza che tutto quello di cui abbiamo bisogno è alle radici dell’essere, e attende di essere ritrovato.

Significa aprirsi a due possibilità: o svolgere un’azione nella parte più profonda del nostro essere, aprire un varco nel suo cuore, indagare la sua ombra; oppure assecondare dell’essere le naturali propensioni, ascoltarne i suggerimenti, portare a completezza le efflorazioni che lo caratterizzano.

Nel primo caso l’intervento è drastico: una Verwindung – un rimettersi dalla malattia, una convalescenza – decreta la perpetua rottura che avviene nell’identico e nell’immobilizzato.

Segni e parole entrano con la violenza di un marchio; impongono la loro pronuncia; chiedono ospitalità.

È l’ingresso risoluto nell’Antiterra: una faticosa discesa lungo sentieri a spirale, attraverso l’oscura notte dell’anima – una specie di caligine psichica, estenuante e ambigua –, fino a uno spazio vuoto destinato alla trasformazione: una nuova nascita, in verità. Per cui la parola viene per sovrapporsi, per cancellare e sostituire. È il passo in avanti senza riserve; che comporta un prezzo da pagare, sempre lo stesso: diventare la nostra ombra.

Rifiutarsi di pagare questo prezzo comporta la perdita della consapevolezza di ciò che siamo.

Nel secondo caso, l’intervento consiste nell’ascolto della lingua muta delle cose. Richiede disposizione al sentire, accoglimento e accoglienza; e riconoscimento. Fino alla riconoscenza di appartenere al mistero di un’alterità che sfugge a qualsiasi presa e possesso, come indica Hölderlin.

Il rapporto con l’alterità ci assegna a noi stessi e al nostro limite, nomina il nostro habitat, ci definisce.

L’Antiterra mette in evidenza entrambe le posizioni e il comune elemento costitutivo: il dolore dell’esistere.

L’accentuazione data all’esperienza ambientale – soprattutto a livello di quotidianità, consuetudine, esperienza diretta – ci consente di vedere, al di là delle apparenze, l’intima verità delle cose: una perdita che non prevede salvezza. Una perdita rappresentata da piani inclinati sui quali ogni significato si trasforma in caduta verso la più radicale frammentazione del senso.

Scrive Leopardi: «E così quello che veduto nella realtà delle cose, accora e uccide l’anima, veduto nell’imitazione o in qualunque altro modo nelle opere di genio, apre il cuore e ravviva».

Ma l’opera «ravviva» non per il potere illusorio che esercita sulle cose. E non per inganno «apre il cuore». Al contrario per il suo sapersi fare «verissima imago» della realtà; ossia per il suo riuscire a mostrarci, come precisa Donà, con più forza e verità di ogni altra forma espressiva, la medesima insensatezza che rende insopportabile l’esistenza. Per il suo far sì che quel vuoto venga ricondotto alle sue reali possibilità conoscitive, alla conoscenza.

Non si incontra mai l’Antiterra se non nella parola poetica.

Flavio Ermini