n. 75, Dire

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Al di là della parola riluce il silenzio. 

                                           Rosenzweig

 

1. Ogni parola, se sappiamo ascoltarla, chiama dall'essere silenzioso delle cose. Intorno al mistero del silenzio - e al sussurro che dal silenzio si leva a ogni inizio del tempo - tesse la sua frase e procede verso il dire. 

1.2. La frase è terra di frontiera tra le cose e l'uomo. In questo "tra" la parola non contiene più solo la parola, ma anche il silenzio, e le cose permangono nella loro originaria vitalità. 

1.3. Il dire è luogo della coincidenza tra silenzio del possibile e sussurro, ma è anche luogo della metamorfosi, che si aggiunge alla creazione del mondo per sostanziare la vita.  

1.3.1. Essere chiamati alla parola significa dover dire per poter essere. 

1.3.2. Ecco perché la via alla parola non conduce semplicemente da un luogo a un altro, da un senso all'altro, ma ci porta ad appartenerle. 

2. Già convocato alla flessione del vocabolo "anacrusi" sul n. 74 di "Anterem", Blanchot aggiunge qualche riga a proposito del "dire": «Quella parola monotona, distanziata senza distanza, che afferma al di sotto di ogni affermazione, impossibile da negare, troppo debole per essere taciuta, troppo docile per essere padroneggiata, che non dice qualcosa ma soltanto parla, parla senza vita ».  

2.1. La parola di cui torna a parlarci Blanchot non arretra di un passo dinanzi al sensibile e nello sperimentarlo è suscettibile di autenticità. Questa parola sfida la lingua a nominare il silenzio della vita, istituendo quel colloquio originario in virtù del quale ascoltare e dire trovano la loro unità. 

2.1.1. Il pensiero, finalmente, è la stessa cosa del sangue che bagna il cuore. Nella parola che lo forma c'è il mistero della consonanza col mondo, non figura ma essenza delle cose. Una parola "delebile", sottratta alla coscienza per mettere in essere le cose, così come annuncia la pagina rilkiana: «Terra, non è questo ciò che vuoi, / invisibile risorgere in noi?». 

3. Il dire richiede di farsi ciechi per le cose della terra e di affidarsi a una vista superiore (epopteía, "guardare al di sopra"): per testimoniare così dove finisce il silenzio e comincia il sussurro; dove, alla minaccia del pericolo, sopraggiunge il grido. 

3.1. In questi orizzonti del dire alcune forme appena accennate si sollevano e galleggiano. Altre forme relittuali svaniscono. Sono presenze che gravitano brevemente intorno al proprio centro, per poi essere cancellate da forze esterne, come accade nell'ultimo Celan, nel suo frammentare, rinumerare, fare a pezzi la lingua, balbettando, brancolando a tastoni.  

3.1.1. Nel dire, sulla pagina viene ripetutamente consumata una apparizione-dissolvenza di quel «sussurro» che, come annota Mandel'stam «nacque forse già prima delle labbra» e che nulla sa di quello che lo precede e lo segue, pur testimoniando, come precisa Blanchot, «il trattenersi delle cose nel loro stato latente». 

3.2. I nuclei alfabetici del dire, in sé compiuti, incomunicabili fra loro e non configurabili in un discorso, mostrano che viviamo per frammenti espressivi. Le frasi che pronunciamo non si allargano in periodi e il periodare, quando si verifica, non ha la capacità di dare impulso a un discorso totalizzante.  

4. Nel dire accade il ritrarsi e il salvaguardarsi dell'essere; il suo manifestarsi, nel suo sorgere come nel suo svanire.  

4.1. Il dire fonda un abitare in cui si danno convegno le parole colte nell'atto di assentire alle cose e non a una rappresentazione tranquillizzante delle stesse.  

4.1.2. È grazie a questo universo che la parola è parola. Una parola prima del pensiero, alla quale il nome "parola" forse non conviene più. "Sussurro", magari, che si esprime nella forma elementare del respiro e dunque della vita. 

4.1.3. Proprio quel respiro che si sottrae per sua natura alle parole ha voce nella poesia.  

4.2. Il dire sorge da quello spazio vuoto che la poesia è andata a occupare con il suo respiro, compiendo l'isolamento inaudito della parola e assegnando a essa, per la sua intransitività, la chiave della propria decifrazione.   

4.2.1. La parola vive di vita propria. È  per essa che qualcosa giunge a stare di fronte. Il dire è sempre, in primo luogo, ascolto della parola che a noi si rivolge per essere accolta.  

5. Noi abbiamo il compito di restituire la parola a quanto è stato costretto a tacere, per un ascolto fedele di ciò che chiede di essere tratto dal silenzio, ovvero la  parte non significabile che abita l'ombra di ognuno. Proprio come si chiede Bonnefoy: «C'è qui, sull'orlo di chi siamo, un impensato da capire? ». 

5.1. Questa parte oscura del dire è la nostra fonte. «Al di là della parola riluce il silenzio» annota Resenzweig. E aggiunge: «Dio stesso sta lì, redento dalla sua stessa parola. Tace».

5.2. La traduzione del silenzio non si può stabilizzare in alcuna forma: il movimento della scrittura conduce la frase ogni volta a strutturarsi e a disgregarsi. In quel culmine si colloca per un momento la poesia. 

Flavio Ermini