n. 57, Epoché

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«Anterem» dicembre 1998

Dice lo straniero nel deserto: «Ogni cosa al mondo mi è nuova». E la nascita del suo canto non gli era meno straniera.
Saint-John Perse

Quella strada non preceduta da alcuna verità che le prescriva la sua esattezza – è la strada del deserto. 
Derrida

L’Epoché. Vero e proprio esercizio del silenzio, questa figura del limite conduce dall’ascolto all’ascolto pensante, dove pensare non è più avere e richiede una sospensione, o forse l’annientamento, di ogni abitualità di senso. Tanto da condurre a un vedere che non è più virtù della vista e a un costruire in cui le cose si danno nella loro complessità. Un modo che vuole essere un leggero circondare – come salvaguardare, come custodire –, non un possedere o un rinchiudere nel concetto. Un esercizio che lascia coincidere l’oggetto della ricerca con il cercare, in libere sequenze, senza traguardi successivi, con le sorprese e le quasi ovvietà di ogni esperienza di pensiero le cui peripezie non sono l’accidente, ma la caratteristica principale.

Nel suo guardare che è essere guardata, la parola poetica incontra se stessa nelle sembianze di uno straniero. Si prepara alla produzione di senso. La questione è: come può trasformarsi nell’Altro che è, conservando le reciproche ragioni costitutive?

La domanda si fa ancora più radicale con l’emergenza di ciò che all’Altro è più proprio: il suo tempo, di cui lo spazio metropolitano, nella definizione di passaggi e limiti tra discorso e antidiscorso, è un emblema.

Le strade che portano all’incontro con l’Altro costituiscono il luogo esemplare dell’intreccio tra la parola poetica – impegnata a fondo nel confronto col fantasma delle proprie origini – e la realtà della propria trasformazione.

Il movimento dell’alterità verso la parola, quando è provocato dall’Epoché, domanda un discorso altro da se stesso, dove la parola precipita e si addensa in nuove interrogazioni; e si riabitua all’ombra, il cui senso diviene la scienza stessa della ricerca poetica.

È qui in gioco la questione radicale che il linguaggio incessantemente pone nel suo passo verso il dire inaugurale.

La parola poetica non parla che del silenzio del mondo; quel silenzio che custodisce l’elemento tettonico a cui l’edificio linguistico e le torri dell’uomo possono solo alludere... Chiede di accogliere come autentico ciò che è instabile; di allentare il troppo, aprire interstizi, creare zone di nulla e di vuoto, fino all’erosione di ogni fondamento… Impone una dislocazione del pensiero rispetto alle sue pretese, consentendo così al gesto vocale e al fenomeno metropolitano di manifestarsi nella loro evidenza, di darsi senza essere traditi. Favorendo la crescita di un’esperienza che sia solo esilio e non anche rimpianto o nominazione di una perdita.

Grazie alla parola poetica, lo spazio metropolitano diviene l’immagine del pensiero contemporaneo e della sua mancanza di ogni fondamento trascendente.

Delimitato da molti margini, mai omogeneo, mai perfettamente chiudibile, in questo spazio ciò che parla non è l’abitare, ma la sua crisi, seguita dall’incapacità di distinguere tra il vuoto e la sua apparenza. Qui l’immagine del mondo non è più data dall’esperienza del mondo, ma dall’appartenersi reciproco e originario del costruire e dell’abitare. Qui nemmeno il tempo conosce altra segnalazione se non quella offerta dalla successione dei passaggi dalla luce del giorno alle tenebre.

Il proliferare di immagini vuote, di superficializzazioni e appiattimento funzionale maschera e rescinde la natura; tronca la possibilità di riconoscere il destino e individuare il luogo, per diventare pura spazialità inerte: deserto progressivo e inarrestabile.

L’Epoché ci conduce a riconoscere nel deserto il senso ultimo del fenomeno metropolitano e della sua alterità.

Nell’orizzonte di un pensiero che riconosce il deserto come spazio che gli è proprio e forma del destino, la parola poetica sta in una dimensione cruciale e interstiziale. In un movimento vicino allo zero, rinuncia ad appigli e certezze, per guadagnare la superficie svuotante e annichilente della perdita di ogni differenza e divisione.

Alla forma del deserto corrisponde uno svanimento della sostanzialità delle cose, un infittirsi della caduta, un venir meno... che per la poesia è un terreno inesauribile e fecondo, un suolo enigmatico dove la parola può avventurarsi con passi ricercanti.

Flavio Ermini