n. 60, Nomothetes

«Anterem» giugno 2000

Nel linguaggio non cerchiamo nulla, piuttosto costruiamo qualcosa.
Wittgenstein

La scrittura è inseparabile dal divenire: scrivendo si diventa nutrice, si diventa animale o vegetale, si diventa molecola.
Deleuze

Ognuno dei passi che il poeta arrischia porta al vivo e originario soggiornare presso le cose, a cogliere la tonalità fondamentale della loro voce, a nominarla.

Con ognuno di quei passi il poeta prende congedo dalle grammatiche dell’ascolto conosciute e accede alla lingua che crea, alla sapienza antica dei Nomothetes, i quali, dando i nomi a luoghi e cose, diedero vita al mutevole e vario orizzonte del mondo.

I nomi sono la decisione intransitiva, l’iniziativa inaugurale che stringe insieme i tratti più disparati degli eventi. E il poeta, come il legislatore dell’età più antica della lingua, con i nomi rende accessibile lo spettacolo a cui senza consapevolezza partecipiamo. Moderno nomoteta, si espone al principio della necessità che lo ha fatto pensare. Per effetto di un gesto interiore testimonia che il problema dell’origine della parola è una questione capitale: concerne la provenienza della sua essenza.

Prima dell’espressione c’è il nulla. Solo la parola proverà che vi si doveva trovare qualcosa piuttosto che niente. Scrivere è un’attesa e insieme un approssimarsi verso l’aperto, in cui la presenza è costretta a muoversi sul terreno dell’assenza, a lasciarsi disvelare dal suo stesso sottrarsi. Ma poi cercare un verso vuol dire, sì, scoprire o riscoprire un accento nuovo nel gioco smisurato della letteratura, ma significa soprattutto «pensare».

Ma c’è qualcosa da aggiungere e riguarda il vero: un termine primitivo che indica propriamente il riconoscimento di un pensiero nell’incontro con la sua necessità.

Il poeta esperisce il vero nel momento in cui scopre che quanto dice e fa corrisponde alla necessità di dirlo e farlo, producendo nel pensiero un’effettiva modificazione.

Nel convertire in parola ciò che normalmente resta rinchiuso nella vita separata da ogni conoscenza, il poeta indica che non esiste solo una ragione immanente al discorso e fondata sulla non-contraddizione. Segnala un altro sistema di pensiero, preesistente al senso comune e al moto intenzionante della comunicazione; un pensiero fondato su un sentire dove i contrari sono complementari e gli opposti si richiamano, e su un gesto vocale dov’è custodita la differenza che il mondo, costituendosi in categorie, sopprime.

C’è in Platone piena consapevolezza di questo passaggio in una esplicita dichiarazione: «Sembra che finora ciascuno ci abbia narrato una specie di favola, quasi fossimo bimbi».

Quella “specie di favola” consentiva tuttavia di far dire alla parola più di quel che essa intendesse dire, aprendo la strada al possibile, a ciò che poteva esistere. Le faceva dire «quel dir-più che è l’esatta verità del dire» (Nancy).

Di nuovo, oggi, la parola poetica tende a istituire una strana parentela «tra ciò che per lungo tempo fu temuto come grido e ciò che per lungo tempo fu atteso come canto» (Foucault). Fa segno a un codice non preesistente. Con maggiore esattezza: fa segno all’unità pre-riflessiva, pre-concettuale che si espone al mondo prima del pensiero cosciente e razionale.

In questo senso la parola enuncia un principio poetico a noi anteriore, manifestandoci che la condizione della nostra capacità di parlare non sta nell’esigenza di comunicare, ma nell’ascolto dell’appello che il linguaggio ci rivolge. In altro senso, è come se il testo poetico dicesse: «Andate a vedere voi stessi, se non volete credermi», esattamente come leggiamo in conclusione del sesto canto di Maldoror, a dimostrazione che la poesia è e poi anche non è “una specie di favola”».

La parola ci chiama e ci interroga dal silenzio che essa stessa incarna e che alla fine costituisce il destino nel quale scopriamo di essere coinvolti.

In un passaggio che attraversa e travalica il vissuto e il vivibile, fa nascere in noi una terza persona che ci spoglia del potere di dire Io e ci induce ad affrontare un volto sconosciuto.

La parola poetica, scrive Gargani, «sorprende noi stessi e ci insegna qual è il nostro pensiero». È dunque in qualche modo l’atto di coraggio e di rischio che ci consente di accedere al vero, che è al tempo stesso il piacere del pensare e l’emozione della libertà.

Flavio Ermini