n. 67, Lo straniero

«Anterem» dicembre 2003

Io sono ancora aurora e già il tramonto
dice su me che il giorno è per finire
non sono ancora nato e già morire
io devo al tempo che à invertito il conto.
Ferdinando Tartaglia

Quando si posa lo sguardo su una forma, questa viene messa a soqquadro. La scena subisce le conseguenze di un’immissione non annunciata. La porta si chiude su interni molto addomesticati per aprirsi su uno sguardo abitato da domande. Per via di questa esperienza, la responsabilità verso la forma giunge a coincidere con la responsabilità verso l’Altro da sé, propriamente uno straniero.

Prima che lo straniero giungesse fino a noi la realtà era considerata un rapporto fra dati concreti. L’occhio che la penetrava poteva solo riconoscere delle connessioni. Si conformava al dato. E lo restituiva come emozione, senza mai disimpegnarsi da una situazione imitativa. Le corde vibravano sempre sulla cassa armonica di uno strumento precostituito.

Solo con Rimbaud il postulato di Descartes diventa: «Io penso, perciò io non sono io». Ed ecco che dall’oscuro della consapevolezza divisa si affaccia l’Altro.

Posare lo sguardo su una forma per relazionarla alla propria interiorità è condizione irrinunciabile all’umana creazione. Il problema assillante dell’adeguamento a qualcos’altro viene così a modificarsi nel problema dell’adeguamento dell’Altro a noi stessi. Fino alla metamorfosi di sé nell’Altro che dal sé si affaccia come pulsione non programmata, discontinua, nascente.

L’incontro tra l’estraneo e il proprio mette il linguaggio in una situazione di emergenza e lo espone a un’altra lingua. Prima di quell’esposizione non c’è che una febbre vana. Solo la parola proverà che vi si doveva trovare qualcosa piuttosto che niente: è la parola pronunciata da Celan, per dire il dopo; la parola per dire l’ora senza sorelle, senza padre né madre, senza nome.

Tale parola si fa rivelatrice di una natura segreta. Dove si scava un alveo nuovo. Quello di una concretezza improntata alla massima libertà. In quanto trova in se stessa le regole da rispettare.

Posare lo sguardo su una forma significa forzarne gli argini posti all’irrompere dell’ignoto: quell’eccesso che rompe i legami della ragione e minaccia il suo esercizio di potere.

Ci muoviamo lungo gli argini oltre i quali la materia, nome dopo nome, riprende ad animarsi e si destina all’atto di interrogare la vita. Qui, l’ideazione della poesia è l’ideazione del mondo, un’affermazione umana di esistenza. Il paesaggio in essa dispiegato è già la nostra dimora.

Ma non è uno spazio di sapere. Semmai è uno spazio di esperienza, etico, prima che conoscitivo.

Noi siamo il prodotto di questo scatenamento di tempi irregolari, in un disegno che costringe la poesia a tracciarsi, in tutta la sua estensione: «O città io t’ho scritta nel palmo della mia mano» (Is., 49, 16).

La poesia è inadempiente rispetto alla realtà convenzionale. Non c’è scopo né corso in essa, se non, forse, nel nomadismo che prende forma tra identità e alterità, prima di ogni assegnabilità di un senso.

Identità e alterità. Facile è l’aut-aut. Ossia, facile è scompartire. Ma difficoltoso è unificare.

L’«e», di cui parla il poeta, è l’accettazione di quelle esperienze che donano alla realtà una consistenza priva di mascherature. E la rendono dunque vivibile.

L’evento che ci desitua e ci fa atopici rispetto a ogni piano imitativo è questo appartenersi reciproco e originario del sé e dell’Altro.

La poesia non è accessibile se non con un pensiero con-fusivo, capace di mettere assieme gli opposti.

Ecco perché il poeta non deve solo creare, ma anche ridestare le esperienze che radicheranno la sua parola nelle altre coscienze.

L’«e» di cui parla il poeta è l’esperienza di un vuoto indefinito. La vita, lo vediamo bene, procede su un filo teso sopra una crepa sottile.

Poiché non sappiamo nemmeno in cosa consistano i due capi del filo, dobbiamo ammettere, come sottolinea Tartaglia, che il primo nodo forse non è da nessuna parte. E ci aggrappiamo a un secondo nodo, considerato convenzionalmente come primo.

È il disegno delle ipotesi. Ma il mondo respira su ipotesi. E l’ipotesi è, insieme, libertà e pericolo. E separazione da calcoli coperti da garanzie.

Nel volgersi verso lo straniero, il poeta assume non il proprio, ma il «suo» sguardo come punto di erranza: uno sguardo che cessa di essere fisico, si libera del principio di non contraddizione e si misura con il «tempo che à invertito il conto».

In questo avventurarsi oltre le leggi del pensiero, verso l’inizio, il poeta non rinuncia alla propria lingua e introduce nel nostro paesaggio un concetto di realtà che non ha riscontro, se non nella nozione dell’Antiterra.

In questo rovesciamento dello sguardo, si compie il passaggio attraverso l’ombra della scrittura. Ed è come se il mattino fosse l’altro nome della notte. Ne è consapevole Marie Luise Kaschnitz quando scrive: «Solo all’ / alba / solo allora // scorgi i suoi / begli / occhi / tristi».

Flavio Ermini