n. 96, Oltre le apparenze

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Straniera giunse a noi la parola
che forma i mortali.
Hölderlin

La poesia viene dalle profondità misteriose del mondo e del tempo, portando con sé alla luce quanto laggiù è sospeso e indefinito. E lo fa negandosi a una modernità che tutto dissimula. Ecco perché quando nella scrittura non persiste – come fondamento – il moto originario del pensiero, scompare dalle parole l’essenziale.

«La poesia non conosce progressi lineari» registra Ingeborg Bachmann. «Se ci si limita a manipolare la lingua per darle una patina di modernità, ben presto la parola poetica si vendica e mette a nudo le intenzioni dei suoi manipolatori».

Nel testo poetico, la posta in gioco non è il possibile del progresso, bensì l’aspro orientarsi oltre le apparenze: verso l’inizio. Quell’inizio che coincide con il punto aurorale di strappo dal silenzio alla parola.

La paura del silenzio – come della pagina bianca, come del deserto – altro non è se non il timore ancestrale e reverenziale nei confronti dell’origine.

Insomma, la poesia è lo spazio d’interrogazione sul nostro apparire; è il tempo di una contesa ingaggiata con l’orizzonte albale. Compiere un’opera poetica significa soccombere sotto il peso della devozione assoluta a un principio che non conosce compimento. Decidersi per l’opera significa consegnarsi all’ossessione di una lingua capace di aprire squarci nelle oscurità della vita.

Viviamo in un’epoca in cui la fede nel progresso sta diventando la religione dei popoli. Lo splendore superficiale delle merci si va via via sostituendo alla parola poetica; le voci effimere del mercato e della città coprono il canto. Tutt’altro è auspicabile. Va coltivata l’idea di una materia originaria destinata alla persistenza. Quella materia, per intenderci, denominata arché da Talete, apeiron da Anassimandro, physis da Eraclito. E sottratta alla tormentosa damnatio del Werther goethiano che ci vuole «chiusi nella nostra povertà, nella nostra limitatezza».

Nel suo darsi, la poesia richiede lo sconvolgimento del finito. Impone di incamminarci verso ciò che non è ancora formato; verso lo spazio puramente aperto che preme dalle profondità dell’altrove. Solo nell’aperto – propriamente nell’apertura dell’apparire – c’è il seme della nostra completezza, qualcosa che è là dov’è internalizzato l’esterno ed esternalizzato l’interno: in una geografia instabile, liminare.

Sulle rovine dell’io («Io è un altro» ci ricorda Rimbaud) prende posto un accadere che più non distingue tra altezza e profondità. Cos’è accaduto? È accaduto al poeta proprio quanto auspicava Novalis: «Dopo non molto tempo osservò collegamenti, incontri, coincidenze. E presto non vide più nulla isolatamente». Ogni discesa nell’interiorità, precisa ancora Novalis, è anche «ascesa, viaggio al cielo – sguardo volto al davvero esteriore».

È chiara la necessità di tornare a unire tutto ciò che è separato dalla superstizione della tecnica, che tutto divide. Torniamo a ripetere ciò che, secondo la ragione, non si può ripetere: l’inizio. E come se non affidandoci a una lingua separata, a una lingua della pietra e della porosità? È ciò che prova a fare Celan: dire il mutismo, rendere il niente al linguaggio, prestare parola all’ammutolire, alle tenebre di quanto non-detto del discorso: all’antidiscorso.

Il davvero esteriore ci precede, precede la parola; è lì prima della poesia. Ecco perché ripetere l’inizio, oltre ogni ragione. Il davvero esteriore è un’ulteriorità che attende l’uomo. Ma non gli giunge addosso dall’azzurrità. Bensì proviene da lui stesso. Il davvero esteriore proviene dall’uomo e avvia l’uomo verso la propria essenza: l’insistente protrarsi – cioè il pro-trarsi fuori dal nascondimento – del sorgere stesso di ogni “essere” per dire. È come se il linguaggio affermasse: «Non rappresento più, sono».

Impone Hölderlin: «Ti devi porre con libera scelta in opposizione armonica con una sfera esterna, così come sei per natura in armonica opposizione con te stesso, ma lo sei in modo inconoscibile finché resti in te stesso».

Conferma Levinas: «È come se, nell’andare verso l’altro, io potessi ricongiungermi con me stesso e impiantarmi in una terra, ormai natale», una sorta di “terra promessa” intravista attraverso lo spaesamento. Insomma è come se fosse in atto un dire che va incontro all’altro prima ancora di ascoltare una sua chiamata. È un dire progettante: quel dire che, nel preparare il dicibile, simultaneamente mette al mondo l’indicibile in quanto tale. È un dire che si mette al servizio di una lingua per l’altra, nell’altra: una lingua poetica sempre in costruzione: unica e allo stesso tempo duale.

Dobbiamo affidarci al dire che sta al di là di ogni detto, ovvero dove regna il silenzio da cui ogni parola proviene e a cui ritorna a ogni sua insorta estensione. Dobbiamo avere l’audacia di far sì che il movimento tra le due lingue sia reciproco: un andare-e-venire dall’una all’altra, mai a senso unico. Perché? Perché cambiar-luogo della verità dell’essere – da una lingua all’altra, da una parola all’altra – consente di ricollocare ogni volta il pensiero, precisamente come richiede il cammino stesso della poesia, privo com’è di «progressi lineari».

Flavio Ermini