n. 78, Apostrophé

Versione stampabilePDF version
Abitare nella differenza, e cioè: da “estranei”. Con parole antiche, più alte: essere nel mondo (en tô kósmo) ma non del mondo (ou ek toû kôsmou: Gv, 17. 14-18). Essere nel tempo, ma non del tempo; essere “tu” a se stessi; avvertire l’alterità del corpo proprio.
Vincenzo Vitiello

 

Torniamo a parlare del principio e del suo interminabile apparire. Parliamo di qualcosa che, con una domanda, ogni volta comincia e, con l’ultima domanda, prepara il nuovo inizio. Là tra le due soglie è la physis: che impone di sterrare e dissestare la nostra vita, scoprire l’originaria lingua che è al suo fondo.

La ricchezza dell’essere non coincide con il mondo manifesto: risiede nel non-veduto di quel mondo, nella parola che da ultimo noi siamo.

Quella parola segnala in primo luogo l’apertura verso ciò che non ha nome.

Ecco il carattere ortivo del dire la vita.

Nella domanda prima – in quel chiamare principiale – risuona la parola che può dispiegarsi nell’opera poetica.

È la scena aurorale della scrittura.

Quella scena in cui la parola “è” nel suo movimento verso la cosa.

Quell’aurora per cui s’impone la fuoriuscita dell’ente da un fondo di occultamento.

Quella scrittura che si manifesta in un processo mai concluso di uscita dal Lethe.

Si tratta di tornare alla parola che ha consentito all’uomo di fare esperienza dell’ente nella sua interezza; del “tutto” che il dire ripete in ogni istante, incessantemente, e che conferisce alla lingua una sostanza entelechiale che la emancipa da ogni successivo uso strumentale e derivato.

Di tale parola va custodito con cura particolare il senso, nella consapevolezza che solo arrischiandosi nel dire autentico all’uomo è consentito di cogliere qualcosa della propria essenza.

Questo passo – la cui misura si è conservata nel vocabolo grados – porta dal visibile al non-veduto della vita ed è riconoscibile nella figura dell’apostrophé, il cui nome significa propriamente “deviazione”, “sviamento”. Deviazione dalla lingua «del mondo»; sviamento verso il tu dell’antidiscorso.

A tale proposito, come non ricordare, con Celan, che la poesia è «forse soltanto uno sviamento che porta da te a te»?

In questo “sviamento” l’io si allontana da sé, si autoestranea, si destina a un altro, lo fa essere tu a se stesso – altro dall’io – e lo lascia essere nella sua estraneità.

L’altro è il punto di arrivo del movimento intenzionale che caratterizza la ricerca della parola poetica, l’unica in grado di condurci all’insorgenza dell’antipensiero, ovvero alla convergenza del sapere con il da-pensare.

Tale «sviamento» nasce dal desiderio di dare respiro al respiro della parola; scaturisce dalla necessità di far risuonare il silenzio originario, quel silenzio da cui ognuno di noi proviene e nel quale ciascuno, ascoltandolo, torna a dimorare.

Il tu della parola ha un compito capitale: spingersi fino al limite del dire oltre il quale ha luogo la contesa originaria che nomina l’iniziale differenziarsi del tutto. Chiama dal silenzio. E ci invita a testimoniare un limite: toccare i bordi dell’essere.

Il senso di quanto il tu sta per dire ancora non c’è in nessun luogo. Cercarlo impone davvero di metterci in viaggio verso noi stessi e di tradurre in pienezza di assenso l’appello dell’ombra celata nel taciuto della vita.

L’apostrophéè una figura che sta alla base di tale relazione e proprio per questo – per la sua fondatezza – presiede alla possibilità che la poesia si faccia presente.

Nell’apostrophé la parola torna alla sua incontrollata libertà originaria.

In tale processo la parola non è ancora asserzione ma un coappartenersi di presenza e assenza, nel fiorire della presenza stessa.

Ce lo conferma Celan quando a proposito della poesia di Mandel’stam scrive: «La poesia è linguaggio di un singolo diventato figura: possiede capacità di resistenza, permanenza, vigilanza, presenza».

L’esperienza poetica del pensiero coincide dunque con il moto nascente della lingua. Ecco perché la parola che stiamo ascoltando è vicinissima a ciò che siamo. Ecco perché scopriamo che non c’è sostanziale diversità tra quella parola e il silenzio che assedia i bordi dell’essere.

Quella parola è la salvaguardia di ciò che la vita non dice. Grazie a essa è possibile andare a riprendere il tu che irrimediabilmente sembra falciato da ciò che è apparso.

Il tu definisce l’io, altrimenti indicibile, e giunge al mondo come il giorno sopraggiunge alla notte, solo in quanto da essa negato.

D’altro canto, l’io è sottoposto allo sguardo di colui che, richiamandolo a sé, lo situa e – proprio come sguardo – lo costituisce.

L’ascolto del tu è la condizione per dire la vita.

Flavio Ermini