n. 85, L’irriducibile al sé

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Il dire non è soltanto un viaggio dentro noi stessi.
Ciò che a noi interessa lo custodisce l’irriducibile al sé.

Silvano Martini

Trattiamo la letteratura con troppa confidenza. Va accostato con grande cautela il testo, consapevoli che l’attenzione al dire – e al disvelamento che gli è proprio – ci può trasformare. Il testo è ascolto, esperienza, pura possibilità.
Nell’atto del dire, siamo noi a essere parlati. Ed è radicale il controllo che su di noi il testo esercita. Precisa Martin Buber: «Il nostro “essere parlati” è il nostro esserci».

Quel che importa, nell’atto del dire, non è la successione dei passi, non è il metodo, ma è il lasciarsi incontrare per via dal testo. È l’essenziale accadere della parola che va favorito. L’esposizione al dialogo – nella consapevolezza che noi siamo un colloquio – impone una disponibilità ininterrotta.
A questo proposito, avviare un “romantico” processo di discesa in sé – riversandovi le fragili opinioni dell’io – non è più sufficiente. Diventa inevitabile spostare la riflessione sull’essere.

Abbiamo il compito di sottrarre all’io l’indagine poetica del nostro sguardo. Siamo chiamati ad assumerci la responsabilità di mantenere la parola in cammino, e di consentire in tal modo la piena apertura dell’essere, così com’è: nella sua evidenza, senza alterazioni né mediazioni.
Scrive Jean Rostand: «Dobbiamo stimare invidiabile soltanto chi, essendo riuscito a esentarsi dal proprio io, sa accettare senza ribellione gli allarmi e gli spodestamenti che l’esistenza ci impone».

Mantenere la parola in cammino significa renderla irriducibile al sé. Significa scavare nella propria lingua una lingua straniera e averne cura nel proprio dire.
Molto chiaramente, Aristotele a questo proposito sostiene che la parola – quale
logos apophantikos – deve aver cura, innanzitutto, di portare alla luce la struttura aperta e problematica dell’essere, a partire dal suo stesso manifestarsi, per quello che è.

Nella poesia si cela il segreto dell’inizialità. Farne esperienza implica il destinare
l’opera all’irruzione poetica dell’essere, in sintonia con un’esistenza finalmente
disancorata dalla rigida soggettività.
Come non rilevare nel delinearsi di questo orizzonte linguistico – per ciò che il testo lascia da-pensare – una diversa struttura del rapporto poesia-essere? Solo se osservato dagli occhi di un “altro”, oltre l’idea stessa dell’io e delle sue arbitrarie finzioni, il mondo può mostrarsi nella sua essenza.

Con la poesia l’essere umano sta per la prima volta al mondo in quanto essere umano («Pieno di merito, ma poeticamente abita l’uomo su questa terra» ricorda Hölderlin).
C’è un valore di verità fortissimo nell’esperienza poetica. Per questo è ineludibile il costante colloquio con il testo, nel testo: per rintracciare nella sua lingua l’eco di tante antiche domande. Il dialogo tra poesia pensante e pensare poetante appartiene, ci ricorda Heidegger, al «cammino della storia dell’essere», rende visibile la mancanza di Dio, la fine delle illusioni.

La parola deve aiutare i mortali che abitano «poeticamente» il mondo a giungere, prima di chiunque altro, in fondo al caos originario, e così preparare – proprio a partire dal caos originario – il capovolgimento del mondo.
Rammemorare la lingua aurorale, ante rem, significa anticipare quella dell’umanità a-venire, in vista del proprio poter essere.
Il tempo di cui torna a parlarci il poeta è dunque diverso dal tempo “naturale” così come lo avvertono i sensi, ma anche da quello “umano”: a differenza di entrambi, è destinato a non scorrere. La sua estensione geometrica tende allo zero. La sua irriducibilità al sé – esattamente come per l’essere e il dire – è totale.

Lo spazio di ricerca della poesia è pienamente investito dalla crisi linguistica subita dalla soggettività e consiste in un dire cui sia familiare l’incamminamento dello straniero. «Mi contrappongo a me stesso, mi separo da me stesso» registra Hölderlin.

La poesia dice in seno all’esilio, lontano dalla via della ragione.
Qui dà vita a un testo che si regge nel vuoto e custodisce fino alla fine il suo mistero, sfidando logica ed estetica.
Qui l’indeterminazione che verte
intorno all’essere diventa l’essere stesso nella sua costituzione.

Flavio Ermini