n. 70, Nozione di ospitalità, n. 70

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«Anterem» giugno 2005

L’essere umano come poeta, come pensatore,
come Dio, come amore, come potenza.
Nietzsche

Tutto ciò che esiste nel mondo rivelato ospita al suo interno una forza che lo destina alla fine. Niente, se non l’illusione, può impedirci di prendere atto che l’annullamento è il solo possibile esito dell’esistenza.

La voce del limite ultimo scuote il reale e rivela l’angoscia al fondo di ogni cammino.

È un grido di morte quello che gli esseri umani – atterriti – odono dal primo giorno della loro consapevolezza. Quello stesso grido sarà il certificato di nascita della comunità umana. E spingerà uomini e donne al risentimento, se non all’odio, nei confronti della natura.

Dal punto di vista dell’essere umano, infatti, la natura è mostruosa, perché, creando la vita e l’amor proprio di ogni vivente, ha reso la morte e il dolore centrali nell’esistenza di ciascuno.

L’approssimazione al nulla

Da limite a limite, il percorso di formazione può essere seguito attraverso uno sguardo che veda il pensiero rinunciare alle ali degli angeli per cogliere lo stretto rapporto tra essere umano e nulla, e dolorosamente annegare.

La poesia reca in sé questo sguardo e ne mantiene l’angolazione verso dopo verso.

La vita è questione di spazio e non di tempo. Invecchiare è avanzare nel buio, conoscere la notte a fondo prima di cadere. Invecchiare non è lo smarrimento nella selva oscura, né una prova divina; ma la brusca e irrevocabile interruzione del nostro passaggio sulla Terra.

Nella nostra dolorosa approssimazione al nulla, il limite ultimo è ogni limite e la direzione è quella che va dalla notte al buio. La ripetizione è ripetizione ogni volta rinnovata di un percorso verso la fine.

Solo nel presente c’è una tregua. Sul presente riusciamo a tenerci in bilico. Nell’oltre non c’è scudo. Oltre c’è la paura. C’è il futuro, se «futuro» può essere definito questo processo distruttivo in cui è evidente, insieme all’abbandono del pensiero, il riposo delle emozioni, vera e propria esperienza simbolica della morte.

La penultima pagina dello Zibaldone

Che la morte sia inevitabile e che con la sofferenza ci costituisca è un’evidenza prima; non ha bisogno di dimostrazione. Eppure noi insistiamo a inscrivere morte e sofferenza come voci in passivo di una tabella statistica. E tendiamo ad attribuire significati palesemente falsi al nostro dolore. E rifiutiamo di credere che l’immortalità sia un’illusione che la luce del vero dissolve.

Accettare che le cose spariscano significa accettare la nostra caduta; e prendere atto che il buio avanza su noi, escludendoci dal futuro.

Ne era ben consapevole Leopardi se nella penultima pagina dello Zibaldone (4525) scriveva: «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte».

Il diritto alla verità

È attraverso l’hairetikós (propriamente: colui che sceglie) che nella trama illusoria della nostra storia irrompe talvolta un frammento di verità. Quando accade, acquista evidenza l’insensatezza dell’esistere e la nostra stessa storia crolla nell’insignificanza.

Ricusare l’illusione come categoria significa pensare nella direzione della fine. E la fine reclama la conferma del nulla che l’uomo è.

Sarà Leopardi a liberarci per sempre dalle illusioni e dunque da un destino deciso da altri. Pronunciando la penultima parola – il nulla – ci condurrà a farci carico della verità.

«Il nihilismo è alla porta» soggiungerà Nietzsche, annunciando l’avvento del «più inquietante degli ospiti».

L’angoscia mortale

Noi siamo eterni solo nella nostra fugace apparizione su questa Terra, nello sfiorire graduale della speranza, nel dischiudersi precipitoso della caducità.

La nostra unica salvezza risiede nella coscienza di operare nello spazio limitato che si forma tra due cadute, nella comune fragilità.

Ne sa qualcosa il poeta che fa del nulla non uno schermo di fronte a cui distogliere gli occhi, ma piuttosto il centro stesso della vita. Tanto che la sua creazione poetica si rivela come l’appropriazione di un qualcosa che non può essere posseduto interamente e una volta per tutte.

Ecco perché la poesia rende tangibile l’instabilità perpetuamente mitigata della nostra condizione. E riesce a riconoscere nel nulla il principio che converte l’essere umano nella libertà. In tale processo, la poesia disancora l’essere dal principio di ragione e lo espone non solo al poter essere altrimenti ma al poter non essere.

Esattamente come le nostre idee, siamo eterni solo nella nostra angoscia mortale. Un’angoscia che sfida l’atmosfera trasognata degli inganni e delle illusioni. E impedisce di rifiutare il proprio destino.

Flavio Ermini