Numero 72 (giugno 2006)

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Editoriale

E sotto il cielo fugace del purgatorio
Noi dimentichiamo spesso che –
La custodia celeste e gioiosa
È la casa terrena che si distende.

Mandel’stam

1.
Un’abbagliata elevatezza ci sta alle spalle e lascia il posto al protendersi dell’uomo verso il fondamento del proprio essere finito: l’incompiuto. Questa eresia – propriamente hairesis, scelta – si è insediata nella parola poetica.
La parola si forma in un ricercare insistente all’interno di molte esperienze. Ma è negata l’eventualità di un dissolvimento in qualcuna di esse. Anzi, ogni posizione raggiunta stimola verso altre; e tutte, invece di elargire risposte, finiscono con l’acuire la tensione della ricerca stessa.
Nel suo ascolto terreno, la parola abbraccia il proprio senso e, insieme, il vuoto che la circonda: si china verso il limite per accoglierlo. In questo divergere da un assoluto armonico, s’inaugurano l’atto poetico e il gesto filosofico della modernità, che pure non smettono di interrogarsi sulla sensazione di vuoto lasciato da quella perdita.
La parola poetica esige la deliberazione e può essere esercitata esclusivamente su ciò che dipende da noi. In questo senso è connessa alla passione per la verità e fa sì che l’uomo sia il principio dei propri atti, come impone Aristotele.
Lì dove appare, la parola accoglie il bagliore che le esperienze hanno saputo esprimere. E lo trattiene, congiuntamente a quel buio che preme per salire, fino al tracciarsi della frase e al compiersi dell’opera. Sicché, come il gesto della mano che si leva “imita” il moto verso l’alto di ciò che è leggero, così il formarsi della frase e l’orizzontale sostare dell’opera “imitano” rispettivamente l’esserci e la stasi delle cose. In un corrispondere che mai è identificazione, né raggiungimento, né tanto meno compenetrazione.
L’affermazione del pensiero sta nel suo rimettersi all’oscurità della materia come a una forma più profonda di sapere e quale banco di prova per la scrittura.

2.
L’opera si costituisce come luogo di parola per la lingua muta delle cose. Accedere all’opera nel suo ricercante tracciarsi svela la vanità di una visione che pretenda di produrre o annientare le cose e mette in guardia dall’uso di parole che abbiano la presunzione di coincidere con la loro insistenza. La parola stessa è a un tempo tutt’uno con la cosa che indica, ma anche ulteriore e dissimile da essa. Per la parola, la cosa non è mai a fuoco nel punto giusto, tanto che il risultato poetico pone sempre un problema di assenza.
Insomma quel che accade nella formulazione di una frase è un continuo allontanarsi di quel confine che dovrebbe unire l’essenza delle cose all’opera. Eppure proprio questa estraneità consente all’opera di vivere una vita propria, indipendente dalle circostanze e dalle tonalità emotive in cui si è formata. Giungendo a manifestarsi in una sua pratica di cosa… Una pratica in cui il confronto con l’impensato diventerà assillante e ineludibile, e consentirà l’annunciarsi del non-detto e l’inaugurazione di quel colloquio originario che precede ogni dialogo tra gli uomini.
Accedere all’opera nel suo farsi presuppone la consapevolezza che tutto ciò di cui abbiamo bisogno è alle radici dell’essere e attende di venire riconosciuto; e impone di volgere il dire in tutt’altro verso rispetto a quello del discorso, dove la parola semplicemente designa questa o quella cosa, come d’abitudine, e non ha più bellezza. Questa inversione del cammino ci porterà a un’esperienza estetica fondata su una più ampia autonomia del sensibile rispetto all’intelleggibile, e realizzata scegliendo una lingua sconosciuta, non ancora sottomessa al controllo della coscienza: la lingua dei poeti.

3.
Scrive Jünger: «Le cose non si modificano agli occhi di chi è sopra di esse e le osserva, ma mettono in mostra un altro lato della loro realtà». Sale dalle cose il respiro che posa realtà sulla parola e in essa si unisce all’acqua nascosta di un desiderio: trovare il golfo e attingere sicurezze inattaccabili, a difesa non soltanto dell’unicità personale, ma anche di quello stato prelogico ed emozionale che Vico chiama «sapienza poetica» e colloca ante rem.
Scrivere – quale atto di coraggio e di rischio – non rappresenta un abbandono della vita, ma un addentrarsi nel folto dell’esistenza, una disposizione ad aprirci verso noi stessi e ad ascoltarci, trovando nuove parole a cui consegnarci.
Scrivere significa conoscere. E conoscere vuol dire, con Novalis, «sprofondare lo sguardo nell’anima del vasto mondo». Questo movimento va trasformato in uno scorrere di vita, dove l’opera si disponga a dire qualcosa di noi dicendo se stessa. Ecco la cosa che l’opera trae a sé. (Ecco l’opera che la cosa chiama a sé.)
Va prestato ascolto ai poeti che rischiano una dimensione dell’estetica non più intesa come culto di un codice stilistico o rito della forma, ma quale espressione di una svolta cognitiva ed etica insieme, una svolta di portata complessiva del pensiero: uno strumento di comunicazione del materiale preverbale e di un’emozione che ancora non si sa di provare.

Flavio Ermini