n. 62, Grados

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«Anterem» giugno 2001

Dài loro annunzio duplice:
di te e di te,
dei due piatti della bilancia,
del buio, che chiede di entrare,
del buio, che consente di entrare.
Celan

Un passo ancora: per guadagnare quel terreno originario del pensiero che consenta un più radicale domandare. Al fine di accedere a una poetica prima della poetica, prima cioè del suo irrigidirsi nelle forme tipiche delle sistemazioni dottrinarie. Dunque una poetica finalmente in armonia con il luogo del soggiornare che le è proprio: la radura aperta al dire essenziale che accade nella poesia.

Grados: in quanto «passo» e insieme propria «misura», questa figura molto particolare della duplicità mostra come la poesia pensi e si pensi. Come il pensiero che parla dalla poesia non abbia dimenticato di essere originariamente poesia e torni così a sospendere con essa ogni frontalità. E come vi sia nel pensiero, secondo Derrida, «un far accadere ciò che ancora non è: l’irrompere di un evento che interrompe uno scambio. È questo pensiero che è all’opera nell’arte». Ed è in virtù di questo pensiero che il testo può proporsi come conoscenza senza mediazioni del mutevole orizzonte del mondo al suo rivelarsi, oltre che come esperienza del linguaggio e del suo respiro.

Un «passo»: ma verso cosa? Verso il respiro dell’essere. Nella direzione di un’esposizione e un ascolto che conducano a produrre il senso di evento, in opposizione al senso disponibile.

E in quale «misura»? Secondo il progetto di pensare il divenire puro, il movimento assoluto, sciolto da ogni quiete.

Ecco ciò che il poema impone all’essere umano: il coraggio etico ed estetico insieme di offrire al pensiero quel gesto inaugurale che s’inscrive nel presente della creazione e conduce dal caos al senso. In un dire che richiede un esilio e un cogliere che è un attenuarsi della luce: restare sulla terra senza sprofondarvisi, alzare gli occhi al cielo senza lasciarsi abbagliare. Tanto da consentire a Zanzotto di annunciare: «La poesia allora avvenga come avvengono, prima di una colpa o di un merito, le nascite».

Andiamo verso qualcuno o verso qualcosa. Prendendo congedo dal nostro io. L’essere umano cerca con costanza la separazione dalla sua unità. Per destinarsi a un Altro e prestargli ascolto. Per tenerlo con sé o respingerlo. Senza questo movimento intenzionale tutto sembra cristallizzare.

Eppure lo stato di solitudine che ci domina appare invalicabile; è un limite che non riusciamo a lasciarci alle spalle: specchio della nostra finitezza e insieme varco abissale su cui affacciarsi.

L’estinzione della solitudine può avvenire solo con l’estinzione dell’essere. «Lascia solo la notte parlare avanti agli occhi» statuisce Celan.

Se il risultato ultimo è l’attenuarsi della luce fino all’esilio dal mondo, scrivere significa darsi all’oggetto per eccellenza: il nulla. E il poeta è tanto più vicino alla realizzazione del senso dell’esistenza, considerata come apparizione e sparizione nel tempo, quanto più riesce a dare conto della profonda inquietudine che accompagna questa certezza: l’uomo, in qualsiasi direzione si muova, non è che il modellatore del suo nulla finale.

Cifre si uniscono a cifre, fino a formare la somma delle nostre esperienze. Ma il risultato conclusivo è uguale a zero. O comunque qualcosa che niente avrà in comune con ciò che siamo vivendo.

Il nulla ci appartiene nel senso in cui diciamo, per esempio: la vita mi appartiene. Asserzione che consente di aggiungere: questa appartenenza del mio essere a me stesso è tutta la coscienza che ho di me.

«Ogni risultato, ogni passo avanti nella conoscenza è il prodotto del coraggio, della durezza con se stessi» scrive Nietzsche. Aggiunge Wittgenstein: «Chi non vuole discendere in se stesso perché è troppo doloroso, costui rimane naturalmente alla superficie nello scrivere».

L’opera poetica deve innalzarsi per realizzare il proprio «= 0». E impone al poeta di restare fedele a un paradosso: compiere una conquista entro un interminabile cadere.

Noi siamo sempre in una posizione di dialogo e spingiamo i nostri passi in sfere molto lontane, anche in quelle che ci possono impaurire. «Io sono le mie scelte» annuncia Sartre.

Flavio Ermini