n. 84, La contiguità alle cose

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Mancher auf der Wanderschaft
Kommt ans Tor auf dunklen Pfaden Trakl

La conoscenza vera è conoscenza dell’essere. Ce lo conferma Parmenide: «È infat ti la stessa cosa il pensiero e l’essere».

La conoscenza vera segue il cammino del pensiero, allontanandosi dalla conoscen za sensibile, ovvero dall’apparenza testimoniata dai sensi.

L’apparenza pretende che la via di accesso alla verità sia fondata sul nascere, sul pe rire, sul mutare delle cose, cioè sull’insieme del loro essere e del loro non essere. È ingannevole l’esperienza sensibile così com’è apparente il mondo del divenire. La contiguità alle cose non può avere che il fine di rivelarle nella loro apparenza. Attesta Parmenide: «Anche questo imparerai: come stiano verosimilmente le cose apparenti, per chi le esamini in tutto e per tutto».

Così fa la parola poetica quando segue la via del pensiero.

Il senso della poesia, come quello dell’esistenza, sta nel suo prendere posizione per l’essere, prima di volgersi a qualsiasi altra destinazione. Solo così potrà coincidere con il pensiero e interrogarsi sull’enigmatico sentiero della conoscenza.

Nella poesia viene messo in scena un modo di guardare che consente di cogliere il punto in cui esattezza e verità coincidono: «vedi, io salgo, vedi, io cado / sono un altro, non un altro» registra Celan.

Va seguito con attenzione il disegno del pensiero che tende a quei limiti della parola che sfiorano l’iniziale differenziarsi del tutto. In verità, luce e notte sono una cosa sola, ci ricorda Parmenide.

Quando il disegno del pensiero giunge a concepire il principio indifferenziato, significa che non è lontano dall’aperto in cui si affermerà l’opera.

Va ben interpretato il disegno del pensiero che si assume il difficile compito d’in scrivere lo spazio e il tempo nella parola poetica; ne va aiutata la comprensione. Va seguito il disegno del pensiero, nelle sue delicate funzioni di accennare dall’aperto all’inconosciuto, serbandolo nella sua inesplicabilità, e di recare nel tempo l’annuncio di ciò che viene: senza pre-dirlo, salvaguardandone l’avvento. Il disegno del pensiero traccia un’azione che nessun significato può definire. Cur vandosi su ciò che si sottrae, indica l’emergere dell’essere.

Sono profonde le corrosioni che il chiuso orizzonte dell’apparenza ha prodotto su di noi: tacciono tutte le parole, l’azzurrità è spopolata, il deserto si estende ovunque.

Non deve esserci esitazione nel prendere le distanze dalle opinioni, rappresentate da quello che crediamo di sapere, e nel mettere alla prova i nostri convincimenti. Sotto quel cielo vuoto, a malapena rischiarato da un’unica stella, «svaniscono, 5 precipitano / gli uomini dolorosi / ciecamente dall’una / all’altra delle ore, / come acqua gettata / di scoglio in scoglio / negli anni giù nell’ignoto». Non potrebbe essere più preciso Hölderlin. Gli esseri umani «svaniscono» in quel reale che si trova al limite della vita, dove l’avvento del deserto tutto fa apparire marginale e irrilevante. Camminiamo. Irretiti nella trama dell’illusione (l’illusione del potere e del successo; del piacere a ogni costo), andiamo verso il «giardino dell’infelicità» leopardiano, dove il cantico delle creature è rovesciato.

Un’ombra è l’emblema del corpo che appare e scompare; un’ombra costretta a muoversi nell’orizzonte di due riflessi opachi. L’umbratilità è così radicale da far pensare che anche la vita sia un’apparenza: la messa a fuoco dell’ombra, quale struttura portante dell’esperienza umana.

Percorriamo una strada ma non andiamo da nessuna parte. Siamo intrappolati nel la rete delle apparenze, nella rete dei nostri sensi e delle cose che ci circondano. Questa rete – propriamente un paretaio – non è che una diversa nozione dell’om bra originaria: una forma omogenea e indifferente all’uomo.

Il colloquio pensante con l’essere è una possibile risposta alla forza con cui venia mo chiamati dal reale a riconoscerci come esseri che si pongono delle domande. Tale colloquio propone l’essere in una possibile forma; senza tuttavia tematiz zarlo; cercando di non tradirlo. Propone un possibile senso, anche se il senso si rivelerà pura insensatezza.

Quando un pittore come Franz Marc dipinge cavalli azzurri, rappresenta nell’ani male una qualità che non c’è in natura e che non può essere percepita. Questa “qualità” è l’essenza del cavallo.

Insomma, Marc non dipinge singoli cavalli, i cavalli che noi vediamo circolare nel paesaggio, bensì l’essenza dell’animale, quella che comunemente non si vede, abbagliati come siamo dalle apparenze.

Per cogliere delle cose l’essenza nascosta e profonda, dobbiamo fare un passo nel nudo disvelamento del vero; oltre la superficialità dell’intuizione sensibile, oltre le connotazioni sensoriali.

Pensiamo, a tale proposito, all’oscuro migrare di Trakl: «Alcuni, durante il pelle grinaggio, / giungono alla porta per oscuri sentieri». Solo chi segue la via del pen siero corrisponde all’appello dell’essere. Eppure «per molti la tavola è pronta». Ma allora, se la porta è aperta, se il pane è pronto, perché non entrare e non seder si a tavola? Perché non prendere posizione per l’emergenza del dire?

Flavio Ermini