n. 83, Di un altro dire

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L’armonia nascosta è superiore alla manifesta.

Eraclito

Il dire poetico è la casa ospitale in cui nominazione e indicibile possono sostare, in un tenersi insieme dei differenti: nel loro contraddirsi e nel loro opporsi. Il dire poetico è il frammezzo che porta il non-nominabile a nominarsi come originaria contra-dizione.

L’essenza della parola – ovvero ciò che impone alla parola di essere una vera parola – va pensata a partire dalla sua capacità di mostrare nel dire il fenomeno per quello che è, in assenza di pregiudizi.
E se la sostanza del fenomeno è l’indicibilità? Ebbene, la funzione svelante della parola sarà proprio di aver cura dell’indicibile, di custodirlo insieme all’oscurità (l’orphne, così prossima al nome Orfeo).

L’inconoscibile è incessantemente in atto e il dire poetico non smette di segnalarci che è impossibile sottrarci al tempo delle tenebre e dei conflitti.
Il compito del dire poetico è di parlarci della forma umbratile che, risalendo da uno sfondo pre-umano, ci abita e ci trasforma.
Dire: per tornare in possesso della propria ombra.  

L’evento del linguaggio – nel dare vita con il nome a un’ombra tra le ombre – rende possibile l’apparire di ciò che non si potrebbe né si dovrebbe mai vedere: l’originaria, fisiologica inabitabilità del mondo. A iniziare da questo evento si può cominciare a riflettere veramente, così come accade davanti alle pitture nere di Goya, sul destino cupo dell’umanità.
Lo sa bene Mary Shelley quando dà parola alla nostra parte in ombra, consentendole di rivolgere un appello al suo ottuso creatore: «Oh, Frankenstein, non essere giusto con tutti per calpestare me soltanto! Me, a cui tu devi non solo giustizia, ma anche bontà e affetto! Non lo dimenticare, io sono la tua creatura: dovrei essere il tuo Adamo, e sono invece l’angelo caduto al quale di proposito tu neghi ogni felicità, sebbene io non abbia colpa». 

Lavorando al buio, chi scrive cerca la chiarezza. Lo fa dando parola all’oscurità che lo circonda, ovvero al profondo senza fondo della luce: il fuori come dentro assoluto. Non la notte del tempo cronologico, ma un’altra notte che nessuna aurora può rischiarare. A quest’altra notte non può corrispondere nessun altro mattino. Proprio come la terra verso la quale ci dirigiamo, che altro non è che questa terra che abitiamo, dove da sempre già siamo: una terra che è proprio qui, pur essendo altrove.
Quest’altra notte senza un mattino, sopra quest’altra terra senza una nuova terra, è ciò che rimane indisvelato, ed è proprio ciò che nella parola viene custodito.

Solo un dire che non nasconde il proprio non-detto, ma incessantemente lo riprende, può pretendere di farsi prossimo all’inaccessibile, e forse diventare l’inaccessibile stesso.
Per avvicinarsi alla sostanza ultima del mondo, il dire poetico deve andare al di là del mondo, deve rendersi insensato, fuor-viarsi, dissestare il principio di non contraddizione.

Iniziamo e terminiamo il nostro percorso terreno nella tenebra più fitta, che nessuna luce potrà rischiarare. Grazie al dire possiamo accogliere in noi l’ombra e farne esperienza, così come l’io impara a conoscersi facendo esperienza dell’altro.
Ecco perché non si può cominciare a scrivere se non dal fondo dell’opaco, dal rovescio del discorso: propriamente dall’antidiscorso.

Il vivente umano e il semplicemente-vivente sono compresenti nello stesso essere.
Nel dire, il primo si fa trascinare indietro – come accade a Samsa – dalla metà in ombra di se stesso. Sarà nel corso di questo processo che dalla dimensione sotterranea potrà emergere la parola obliqua dell’errore e dell’imperfezione, la sola che può nominare quel luogo inospitale. Dal sottosuolo da cui l’essere umano parla, una parola mostrante prende la parola e fa sì che l’essere, con il ùsuo dire, si faccia presente, si dischiuda.

Per il vivente umano può non essere sufficiente disporre della parola. Può sentire il dovere di averne anche cura, di abitarla, dispiegando così compiutamente il proprio vivere.

Sono tante le illusioni presso le quali cerchiamo riparo per giustificare la nostra ignavia, la nostra viltà, la nostra paura: dalle ragioni della tecnica alle leggi di mercato, dalla democrazia alla religione. Le illusioni tengono in scacco l’essere umano. Fuoriuscirne significa fare i conti con il sottosuolo, dove chi lo abita – come drammaticamente registra Dostoevskij – soffre di ogni privazione. Per l’uomo del sottosuolo il dire consiste nella fedeltà al già-tramontato, alla propria origine oscura; consiste nel guardare alla sparizione del senso, trattenendo per sé il compito di nominare l’insensatezza. 

Flavio Ermini