n. 89, A dire il vero

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E presto il mormorio si fe’ parole

Carducci

Tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, Hölderlin e Novalis inaugurano una rivoluzione che solo con l’inizio del Novecento, grazie alle avanguardie storiche, inizierà a dare esiti compiuti; una rivoluzione non ancora portata a compimento e nella quale a distanza di decenni sono impegnati i migliori poeti del nostro tempo.
Tale rivoluzione prevede che la parola venga traghettata là dove sono le cose, al fine di nominarne lo spontaneo apparire, sì, ma soprattutto al fine di rivelarne il lato umbratile, inespresso; ovvero: la loro essenza, la loro armonia nascosta, così come la definisce Eraclito, là dove riflette: «L’armonia nascosta è superiore alla manifesta».
Tale moto rivoluzionario ha lo scopo di portare a espressione la lingua muta delle cose, operando affinché nella parola umana trovi posto alfine la lingua non co- municabile della physis: tanto familiare alla perduta origine, quanto prossima al perduto principio del senso; così affine a quello che noi non siamo più…

Questo procedimento sommuove in profondità tutto il lavoro di “Anterem”, rivolto com’è al richiamo di quella ricerca letteraria che impone all’essere e all’esistere di presentarsi privi di separazione, indivisi nel loro comune compito, e tuttavia reciprocamente  distinti.
È un cammino che si compie grazie all’incontro esistenziale tra essere umano e mondo sul piano della scrittura.
Lo scopo di “Anterem” è dire poeticamente quell’essere che, manifestatosi nella physis e poi ritiratosi nel nascondimento, è ora nuovamente capace di storia grazie al detto del poeta.
È un detto vicinissimo alla lingua originaria, comune agli umani e alle cose: perfetta trasparenza di nome e cosa, identità di parola ed essenza.
Ecco perché non si può dire che il poeta crei un’opera. Al massimo si può dire che ne è all’origine, che ne è il formatore e che l’opera sia la sua formazione.
Al poeta spetta il compito di cedere la parola alle cose, di ascoltare le parole che vengono pronunciate dalle cose nella nostra lingua, e di condurre l’ascolto a espressione linguistica.
Operando in tal modo, il poeta iscrive l’essere-cosa nella rivelazione. Dalle sue parole comprendiamo quanto sia profonda l’opacità della notte che ancora ci avvolge.

Lontanissima e nascosta in un tempo immemoriale, l’origine attende una nuova nominazione.
Si tratta di risalire il millenario cammino dell’uomo verso il suo punto aurorale, là dov’è una sola lingua. Dov’è inscritta nella durezza della materia quella felicità impossibile che nella modernità si rovescia in rovina.
La parola umana è il luogo dove l’energia del mondo cambia di segno: il luogo dove il corpo si trasforma. Il permanere di questo vincolo fondamentale consente ancora di poter udire nell’ultima parola gli echi della prima, l’unica che le cose possano ancora pronunciare.
È tempo che il mondo si faccia presente nella sua enigmaticità e nel suo splendore: allorquando viene strettamente legato, come scrive Hölderlin, all’«immagine originaria», dov’è ripresa l’ingens sylva nominata da Vico, l’immensa foresta primitiva che sarà fatta rivivere anni dopo da Conrad, il quale introdurrà la heilige Wildniss (la sacra selvatichezza) nella letteratura moderna.
Qui, nella Wildniss, la parola poetica s’inabissa fino alle forme aurorali dell’essere, per rientrare in possesso del senso perduto. Qui – come nel concepimento – sono gli avi più antichi a essere di nuovo presenti: i sapienti cari ad “Anterem”, i nomothetes, i legislatori che per primi nominarono il vasto orizzonte del mondo. Qui, nell’ingens sylva, la scrittura – così vicina alla forza ctonia delle origini, allo strato culturale originario pre-ellenico – è capace di accogliere tutta la spinta dirompente delle archai nell’ambito di un rischiarato ordine della forma.
Qui, «abitare poeticamente la terra» significa letteralmente abitare una terra su cui uomini e cose vivono in un rapporto di confidenza e siedono a mensa insieme; non si meravigliano se davanti a loro siede il loro essere nella sua essenza originaria: quel medesimo essere che alfine Carducci stesso sentirà parlare: «Intesi allora che i cipressi e il sole / Una gentil pietade avean di me, / E presto il mormorio si fe’ parole».
A imporsi, a questo punto, è l’indicibile: l’essere nella sua forma albale. La natura parla alfine attraverso le proprie figure.

Questo cammino è in relazione con l’evento dell’essere, con l’essenza primordiale, comune all’essere-uomo e all’essere-cosa.
Parlare il linguaggio davanti alla natura e nello stesso tempo dare a essa parola, ci dice il poeta, è qualcosa di completamente diverso dall’utilizzare un linguaggio. Il linguaggio poetico è in sé il parlare iniziale, essenziale: è il parlare che il linguaggio parla attraverso il poeta. E che il poeta può destinare alla natura: «E presto il mormorio si fe’ parole».
Questo avviene quando – nel dire il vero – il pensiero corrisponde a ciò verso cui la poesia si è incamminata: l’essenza delle cose.

Flavio Ermini