Massimo Scrignòli, da "Vista sull’Angelo", Book 2009, con una nota di Rosa Pierno

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E tuttavia

per uscire dal mondo dovremo
intuire
            decifrare
                            tradurre
l’angolo minimo di tempo dove

il pane è una luce verticale.

Si passerà da una porta assente
che si può immaginare dietro
le scale, in basso, all’opposto
del rosso che occupa le ore
per tutto il giorno. Il vecchio guardiano
conosce ogni passo, i lati insidiosi
eppure ripete
                     “Entrate entrate, poi
scendete sette scalini a destra.
Il luogo della fenice è un triangolo
vi accorgerete subito dove
conviene arrivare dove
non si dovrà andare”.

Si entra nel triangolo
e non si pensa a come uscire
se mai si dovesse tornare, o a fuggire
anche se nessuno dice da che cosa

ma è certo che accadrà
in un’altra parte del giorno.

 

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Il vento si muove e raggiunge i confini.

Entrando nel triangolo domanderai
se la vita è ancora viva.

Uscendo dietro la fenice chiederai
della sorte del deserto. E della sabbia,
che come rondine illusa
fruga tra le rose di sasso
la verità nascosta agli uomini.

 



Si direbbe che non esista una realtà autonoma, per Massimo Scrignòli nel suo racconto in versi “Vista sull’Angelo”, ma essa sia già un tessuto di segni e simboli da decifrare, attraverso cui orientarsi per effettuare passaggi, per percorrere comunque il labirinto. Non è via iniziatica, percorso formativo, non esiste gradualità verso la conoscenza. Vivere consiste in questo attraversamento in cui i segni sono falene, lucciole da cui lasciarsi affascinare per quel che valgono: “Se il sentiero del ritorno avrà un pensiero / sarà un’iscrizione vuota  / dove forse è meglio perdersi / o inseguire il mondo quando si sposta / spinto da un vento che non riconosco”. Pertanto, nel riconoscere quanti più segnali si delinea la riuscita della partecipazione al gioco. La possibilità di arricchirlo senza sosta, di renderlo vieppiù rifrangente e ricco, poiché in questa lievitazione, in questa moltiplicazione risiede il piacere e la pienezza dell’esserci. Ma non è soltanto pacificata aderenza all’esistente. E’ anche strategia di sopravvivenza: “E come vedi / la verità si è fermata nel grano, là / tra la spiga e la macina risveglia / l’ansia di un destino infedele // trasumanar  che rapisce la vista // e consola”. Alla prova è messa  inoltre la capacità di interpretare correttamente. Poiché i segni servono anche  a questo: a non ripetere gli errori della storia. Nostro dovere è evitare un’altra Auschwitz. Diviene importante cogliere le differenze, affinché si possa rilevare “l’imprevisto lascito di presenze”. E’ il lavoro della libertà, affinché sulla messe di segni si effettui la cernita, “utile a stanare dal fondo della vita / il canto d’amore di un ‘anguilla // o l’impazienza // del destino”. E che sia relazione pacificata tra lingua e oggetto o  ardente lotta tra essi, la lingua resta enigma irrinunciabile .