Roberto Ceccarini, inediti da "Tecniche di spaesamento", con una nota di Giorgio Bonacini

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ci vestiamo con i panni degli altri, perduti nelle strade
degli altri. tra case anonime e bianche. a cercare un vincolo
un luogo della terra, un qualcosa da assomigliare
non per qualche muta libertà, per qualche piazza Tienanmen...

 

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a volte sembriamo voler galleggiare,
muoviamo la testa come pendoli.
altre volte qualcuno trapassa,
qualcun altro nella mischia
getta un salvagente.

non so bene spiegarvi cosa
passa cosa resta...qui, di tanto intanto,
s’incontra un silenzio di luce
o qualcuno che tacitamente annega.

 

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c’è una tregua segreta tra noi e loro
un parlottare trafelato quasi in punta di lingua,
un raccontarsi fitto di tutte le Guantanamo
che conosciamo e che ci hanno attraversato
come un odore scabroso e lentissimo di paura.

c’è un affidarsi comune a cose mai viste
un confondere le acque, un accartocciarsi
negli spazi degli altri e starsene all’aria
nutrirsi di lingue sconosciute, di terre
selvaggiamente spregiudicate.

siamo forse in cerca
di una colpa taciturna e lontana?

 

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se vengono le parole
lasciale
cadere nelle mani
purché tutto appaia
dopo il volo
il lampo generato
dopo il calvario
i suoni delle cornamuse

non faremo altro che ascoltare
lo sfregarsi delle divise
i buchi dove guarderemo
saranno i nostri occhi
qui dove si cerca un battesimo
e ritrovarsi
è un domani che volevamo.

 



Ci vestiamo con i panni degli altri”, con queste parole inizia la raccolta di  Ceccarini e ci accoglie subito, con semplice linearità, l’ambivalenza del soggetto parlante: un io plurale che è parte del poeta e parte di coloro di cui parla. Ma questi sperduti, soggetti a vagare in un mondo non loro, in cerca di un luogo proprio, non sono anche ciò che la poesia ha quasi in obbligo nel suo scavo verso una conoscenza altra? Assistiamo allora a una fusione tra chi dice e ciò che dice, non per un’ingenua e trasfigurata auto-rappresentazione di un sentire esistenziale, ma proprio per la precisa posizione dello sguardo che va ad ancorarsi, con una lingua che respira e dà fiato e con una tensione umana di comprensione etica, alle vite che provano a sopravvivere. Fondamentale è l’immersione nell’ascolto di voci collettive, nella visione di figure spaesate per le quali, talmente tanto è l’abbandono, che diventa improprio anche il tragico. Più vicina a loro è la rappresentazione interiore di un dolore dentro “un silenzio di luce”, dove è possibile incontrare “qualcuno che tacitamente annega”. Un patimento estremo nel mutismo di chi non ho più parole, o sa che le sue non contano. Ecco, Ceccarini sa unire l’intimità della lirica con l’esteriorità di una poesia civile, attraverso una sensibilità speciale nell’uso della parola. E proprio perché la sua è una voce che si lega a una reale umanità di disperazione, tiene saldo l’andamento dei versi. C’è, la lucida consapevolezza di attraversare un deserto brulicante, una contraddizione che ferisce, con un sentimento di commozione che si raffigura in chi deve rischiare tutto per avere anche una minima possibilità di esistenza: anche bisbigliata, anche balbettata o solamente e marginalmente in “un brusio da quasi niente”.
E’ una scrittura avvolgente quella che si dipana in questi testi; una scrittura apparentemente piana, ma emotivamente carica di lampi che rischiarano per un attimo  la solitudine di chi trova il proprio percorso – la proprio bussola – non in una seppur limitata precisione, ma in un turbinio; un movimento continuo – una bufera – , un’impossibilità  di fermarsi che non da tregua. Ma l’autore è poeta che non registra semplicemente uomini ed eventi in processo di negazione del loro essere, ma attraverso la concretezza,  il fare della poesia, costruisce il formarsi degli accadimenti con una leggerezza dolente, intrisa di infelicità, in cui però trova ugualmente spazio l’idea di un grande amore che si intuisce non solo nel sentire la grandezza del cuore, ma anche osservando “i processi della mente”, per credere ancora a una bellezza, anche piccola, anche trasandata, ma   con “innocenza strepitosa”. E ancora di più va a fondo, con un’esplorazione empatica, la sua capacità di sintesi generativa, nel passare da un immagine quasi di allucinazione,  di miraggio delle cose vere (l’insegna di un bar o un aereo ad esempio) che abbagliano quasi a profanare il cielo, alla folgorazione del lampo che nasce “dal calvario”: cioè dalla più personale sofferenza alla sua resa collettiva e universale. E dove tutto sembra ormai morto e sterile, e i patimenti rinsecchiti, c’è ancora forse una possibilità: un’utopia che viene dalle parole lasciate “cadere nelle mani”, un barlume nel precipizio di “un’altezza inutile” che sia possibile, prima che l’autunno si cementi dentro, dettare “un altro tempo”.