Stefano Massari, da "Serie del ritorno", La Vita Felice 2009, con una nota di Rosa Pierno

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la morte che dovevi diventare   che dovevi mangiare   che dovevi dividere
come odio dal pane   ogni gesto del tuo giorno   ogni giorno del nostro anno
in tutte le nostre case   di sentenza e redenzione   dove dovevi ritornare
dove dovevi restare   in posizione di artiglio e convalescenza

 

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la morte che dovevi conservare   che dovevi tossire   paziente   come l’attesa dei laghi
che dovevi pregare   in posizione di violenza e comprensione   per restituire ai padri
corpi di figlio senza circoncisione   senza colpa   senza generazione

 

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la morte che capivi al buio   nascosto nella parte impazzita delle leggi   che ti scavavi
tra le gambe   lungo l’arteria femorale   quando mentire era salvare   non avevamo altro

 

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sono storia la nuda   madre la sana   viscere e lana   sono pane
conio   bilancia   olio sulla pelle dei primi strappata   ai testimoni conosciuta
alle croci sconosciuta   alla morte addestrata

 

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sono morte la chiara   velocissima e immorale   bestia feconda
festa cardinale   acrobata superstite   destino senza il male
sono il figlio tribunale e la madre altare   muscolo visibile del vuoto

 

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allora sono io   il muro   io   il nascerti   io che muoio sono
il tribunale quotidiano in ogni buio   in ogni volta che parliamo
al nostro male chiuso   ai chiodi addosso al nostro addio supremo
sulle mani piene di calore ottuso   che più a nessuno sarà dato
o ricordato   negli anni che questa colpa superiore non trattiene

 

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allora sono io   che ho perduto gli occhi   che confidavano tutto
fino al sangue   o nello scontro quasi incesto   che domandavano tutto
senza un gesto o ringraziamento   che scrutavano dentro il braccio teso
la forza della terra   in tutte le obbedienze

 

 

Si apre, la raccolta “Serie del ritorno” di Stefano Massari, con un gesto che fa spazio all’imminente, paventandolo, ma anche con la rinata consapevolezza di sentirsi forti (si è più forti se si deve difendere qualcuno che si ama). La volontà può avere un ruolo fondante e dunque è individuato anche l’orizzonte in cui il gesto si attua: “come sempre è la legge”. Nello spazio diradato della notte, mentre la sua lei gli dorme accanto, il poeta verifica la dislocazione degli oggetti percepiti e conosciuti. Se è presentissima l’influenza di Nietzsche, lo è in maniera del tutto originale. Parole che appaiono più simboli che termini costellano il testo poetico: eterno, danza, inizio, anello, enigma, vendetta, serva s’innestano in un tessuto esistenziale in cui si ha il coraggio di affrontare l’aspetto in ombra delle cose, la sua alterità, la sua macchia: “Tutto il tuo corpo pane bianco e inerme / tutto questo mio sporco a cui acconsenti / nascondiamo tutti un male vivente per sempre / nascondiamo tutti una vita altra e qualunque”, per giungere a una scrittura in cui la sintassi si frange sempre più sotto la spinta del molteplice e dell’inevitabile emergere della contraddizione. Una profondissima umanità che risale come un anelito fomentato dall’amore, e in continuo colloquio con la morte. Naturalmente umanità è inseparabile dagli orrori che essa subisce e compie. Ma è sempre lei, la donna amata, la sua presenza, la sua voce a fare da contraltare, a spronare all’azione. L’amore si colloca come unica forza attiva possibile nella strategia e non solo per resistere, ma per essere diversi: “non sanno quale dio del loro perfetto mondo stiamo finalmente lasciando / non sanno che noi noi due adesso stiamo nascendo”. Una scrittura, dunque, che è analisi, ma anche progetto. Apertura all’evento.