Sofia Demetrula Rosati, un inedito, "Il demolito è l’unica dimora del ritorno", con una nota di Marco Furia

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Persefone esce dal Tartaro per reiterare l’annuale ritorno sulla terra. Demetra l’attende. Ade l’insegue. Sfinita dall’eterna divisione tra il desiderio di un uomo che la trattiene nel mondo delle ombre e una madre (doppio di sé) che la reclama alla vita, per far maturare i campi d’orzo, Persefone dimentica il suo compito. Il suo ventre nel mondo delle ombre rimane sterile, mentre quello della madre, doppio di sé, partorisce ogni anno, grazie a lei. Ella allora, prende coscienza del suo corpo sterile eppure fecondatore, del desiderio che la minaccia senza darle piacere. Il suo nome le dà senso e coraggio. Lei è pharo-phonos “colei che porta la distruzione”, niente più di questo. Il corpo-donna si ribella al mito e conquista uno spazio, una “no man’s land” tra la vita e la morte.

non esiste    una vera        posizione    del piacere
     il fiato sul collo  è    il mio
         le mani      sul ventre   sono     le mie
     le dita     nel mio utero     cercano   con misura
                una piega     tra la    pelle rugosa
                dove poter ancora        resistere


                        ho dimenticato i semi di melagrana e
                        non ricordo più qual è il mio compito


quanta luce         arde il sole
io  cammino    non ho memoria   dei passi della fuga
    il cemento   ha distratto          chi mi insegue
non comprendo altro ritorno          che non sia demolizione
la dimora non    emette suono


sono un mattino di fine giugno
perché mi chiamate sera d’autunno?


mia madre che   ho generato
mi aiuta a   partorire    in
          questa   lunga giornata      estiva
                 stesa nel    campo d’orzo
                 sotto un sole di ferro   arrugginito
ma non vedo   uscire nulla       dal mio utero
solo   liquido amniotico   che lei
   asperge sul campo   e   una
                placenta livida e      maleodorante   che lei
            dà in pasto agli animali   fermi  sul
                                           margine    del bosco di pioppi bianchi


dov’è il mio frutto? il partorito?
                                    nell’utero solo  le   mie   dita


io  sono ancora un   mattino   di fine giugno  e  tu
            da me generata             che mi chiami figlia


  parli dell’autunno e    del ritorno
        mi dici che lì    sotto questa terra   che 
             stai fecondando  con     il  mio ventre
                       lì sotto   c’è la dimora
                 la mia dimora


ma il demolito è  l’unica dimora   del ritorno  e io
ho dimenticato i semi di melagrana


chi mi insegue è lì    con il viso
rivolto verso   l’alto   distratto dai     lunghi
pilastri di    cemento armato
i suoi occhi soffrono     perché non conoscono    la
      possibilità   della luce    e non
         sono allenati     alla velocità   dello
                                               spazio verticale

con le mani      come tettoia    spera di trovare   riparo
                                   ma    lucide lastre nere   continuano   a
                                                          scorrere  sulla   sua   retina

      il mio fiato sul       suo collo          gli dico che
               il demolito è     l’unica dimora  del ritorno
      le mie mani sul   suo addome             disperdo
               lo sperma   sulle     mute macerie


con il ventre vuoto    torno nel
      campo d’orzo     da mia  madre
                                    da me generata
                  trascorro le    lunghe    giornate estive
           distesa tra     secchi    arbusti     di paglia

             l’orzo   non è più    maturato
                  gli animali    se ne     sono andati
                                 in cerca   di cibo   altrove

       l’estate è      permanente     e  il sole
             arrugginisce      inutilmente
mia madre      da me generata        agonizza


   chi mi insegue   ha purificato   la retina
    dalle   lunghe lastre nere    e 
           trascorre il    suo tempo
           ad  inseguire    lo spazio   in verticale


io      ho  dimenticato     qual è il       mio compito

 

 



Con “il demolito è l’unica dimora del ritorno”, Sofia Demetrula Rosati presenta una poesia la cui assidua cadenza allude a un quid in cui sembra, alla fine, precipitare:
“io ho dimenticato qual è il mio compito”.

Dico “precipitare” perché, a mio avviso, proprio di questo si tratta: le pronunce poetiche, ampie e precise, ricche di riferimenti alla maternità e, in generale, alla fecondità, compiono articolate volute per concludersi, in maniera repentina, con la suddetta dichiarazione.

Dichiarazione inattesa, poiché il corso dello sviluppo linguistico pareva tendere al raggiungimento di maggiore (responsabile) coscienza, anche se il verso che dà titolo al componimento risulta, senza dubbio, inquietante.

Bene, credo proprio che in questa presenza simultanea di dati costruttivi e di profonde inquietudini consista il nucleo di una poesia che intende mostrare, con coraggio, non concordanti aspetti.

Per riuscire a superare un doloroso contrasto occorre prima riconoscerlo in tutta la sua angosciante pienezza, con sincerità, senza riserve: appare questo il messaggio di una poetessa troppo coinvolta nell’esistenza per negare ogni possibilità di salvezza.

Salvezza nemmeno eccessivamente implicita in immagini certamente non usuali, per nulla conformi ai quotidiani canoni, in grado di porre in essere uno spaesamento non sterile, non fine a se stesso, tale da indurre a riflettere.

Immagini come
“mia madre che ho generato
mi aiuta a partorire in
questa lunga giornata estiva”.