Guido Caserza, da “Priscilla”, Oèdipus 2009, nota critica di Rosa Pierno

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Al primo passo sei un manichino
senza ombra, un vestito di seta appeso fuori
dei miei occhi di madreperla: amore,
che interminabilmente ripeti te stessa, donna
che nasci dagli angoli della mia bocca, vecchia
stanca che appendi logori vestiti alle corde
del cielo, guarda: al tuo primo passo
la mia lingua è una vecchissima parola.

 

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Il secondo passo, se nessun occhio
ti avesse visto, tu lo staresti ancora compiendo,
un usignolo beccherebbe indifferente la mollica
dei tuoi seni, avresti le ali
ma di duro diaspro,
accenderesti il fuoco ma senza bruciare,
le mosche si poserebbero sui tuoi occhi
di medusa e io non ti avrei mai amato.

 

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Il quarto passo lo compi su una delicata
tovaglia di lino: incominciano gli amori
fra le meduse e tu cammini leggera
sugli occhi. Non ti sei ancora
staccata dalla mia ombra e sui calici
fai tintinnare i cucchiai del nostro amore.
C’è un diamante sotto la tua lingua
e tu sei così bella, ma che follia pensarti eterna.

 

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Al settimo passo giaci distesa nel ventre
di una macchina e i tuoi occhi mi guardano, appesi
fuori della porta. Hai acceso i fanali
per illuminare le meduse a filo dell’acqua: quando
torneranno a riva ci saremo già detti addio
e le nostre spore, ancora una volta, si apriranno.

 

 

Nel vortice mnemonico/immaginativo che Guido Caserza  innesca sulle pagine del suo “Priscilla”, l’amore non è un pretesto, è la condizione sine qua non dell’esperienza esistenziale. E’ in questo  cilindro esplorativo/sperimentale che egli visualizza la vita con i suoi cicli, il rapporto della mente con il corpo, gli stati del proprio essere. Da cui non sono escluse le conoscenze scientifiche e filosofiche chiamate in aiuto non tanto per classificare, quanto per rendere più complessa e aderente al reale  la lettura. Amore partecipa ai cicli vitali della natura: “nella mia mano ti cibi di mosche, mentre tra le fiamme / anche oggi un uccello disputa il tuo verme”.  L’esperimento riuscirà quante più variabili potranno prendersi in considerazione e viene condotto scrivendo poesie: “e mentre mordevo /  la bianca cera del tuo seno tu / piangevi cenere / ed ingannato io ti ingannavo”. Pertanto, falsificazione, incertezza non risolvibile, credenza, fede, dubbio, immaginazione, creazione sono sovrani nel gioco in cui l’amore non è mai riducibile ai due corpi che si uniscono, dove anzi persino i corpi sono eliminabili, dove il gioco può essere giocato anche dalle sole capacità mentali: “Priscilla, ciò che voglio dirti / è che tu non esisti, anche se esiste / il mio amore per te”.  Senza, inoltre, lasciare fuori, anzi rappresentandolo con grande forza e veemenza, il sesso, e la rappresentazione virtuale dei corpi, le apparenze o gli inganni, e persino la fine, la quale non giunge a termine finché è pensata. Che sia pura creazione, l’amore, è esemplificato dalla sezione “Cornici scespiriane”, ove esso viene ricreato a partire dalla suggestione di una lettura, in cui, ancora, il tempo non è che un’illazione, una vuota scatola da riempire con la determinazione del sé, restituito dalla donna amata, e che è insieme esperienza dell’amore ed esperienza della scrittura poetica.