Silvia Ferrari Lilienau, saggio d’arte, "La coda del Surrealismo", con premessa di Mara Cini

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Ecco da Silvia Ferrari Lilienau un’ analisi  delle forme artistiche del contemporaneo che mette il “fruitore” sempre più al centro della “produzione”  e lo porta ad essere, in parallelo, anche critico di un’espressività che si presume  “la coda del surrealismo”.
Ma non si pensi ad un Bréton invecchiato intento a rileggere ingialliti cadavres exquis,  piuttosto a tipi alla Tzara e alla Duchamp che sfidano il caso via web in una mescolanza di reale e virtuale teso a mantenere “qualche dubbio percettivo”.
…a meno che non ci si distacchi dalle parole, dai  tableaux  e finanche  dalla terra  fino a credere nel vuoto, come l’insuperato Philippe Petit,  surreale nel suo funambolismo vero (lui sì che prende per la coda - per la corda- l’arte).

 



Si provi a pensare all’arte tra l’inizio del Novecento e oggi come a una bilancia, i cui piatti in origine contrapposti tendano a una posizione di equilibrio solo temporaneo. Si immagini che sul piatto più alto sia collocato un generico concetto di arte, sul più basso un’idea altrettanto generica di vita.
Nell’osservare il mondo per riprodurlo, prima del Novecento l’arte si è sempre tenuta a debita distanza, come per meglio mettere a fuoco l’oggetto del suo desiderio. I confini dell’una e dell’altra erano stati fin lì piuttosto chiari, benché pare che il virtuosismo pittorico di Zeusi già anticamente avesse insinuato qualche dubbio percettivo.
Sono state le avanguardie storiche a favorire il progressivo livellamento dei bracci della bilancia, specie il Dadaismo, che all’imitazione del vero ne sostituiva l’introduzione diretta entro i margini dell’artificio, confondendo l’uno con l’altro, attribuendo anzi ai campioni prelevati dal quotidiano un coefficiente artistico che eludeva il tramite artigianale, e si connetteva direttamente alla sottigliezza dell’ideazione.
La successiva spinta discendente dell’arte verso la vita è stata determinata dal Pop, e dalla traduzione in arte del quotidiano massificato. Da lì la vita ha preso a fluire nello spazio artistico attraverso filtri sempre più esili, nonostante la strumentazione si sia fatta via via più sofisticata.
Superati gli esiti di partecipazione collettiva degli happening, e di sollecitazione visiva pubblica del graffitismo e della street art, l’identità tra quei concetti di arte e vita inizialmente assunti ha incominciato a circoscriversi entro margini autoreferenziali, per le mutate modalità conoscitive dell’osservatore.
Lo sguardo sovreccitato dalla multimedialità di ampio consumo raramente può ora rallentare per la contemplazione di opere isolate. Abituato allo spostamento rapido sullo schermo, sulla superficie di connessioni orizzontali che non rallentano mai, esso attinge alla pluralità di informazioni per selezionare quanto gli è più consono: il consumatore preleva e riconduce a sé.
La dimestichezza con le diffuse tecnologie ha anzi generato una frequente autonomia di impiego negli utenti, che si sono esercitati a produrre per sé emulando in tono minore le modalità operative degli artisti professionisti, ma appunto esautorandone la lezione, grazie alla presunta auctoritas conferita loro da una perizia tecnica di facile accesso.
I piatti della bilancia, dopo essersi brevemente sfiorati tendono allora al ripristino dello squilibrio iniziale, benché invertito, il concetto di vita proiettato verso l’alto, l’idea di arte diretta verso il basso.
Questo perché l’arte, che già aveva variamente deviato dal manufatto, ha infine deviato anche dall’artista per accomodarsi in grembo al nuovo spettatore, al quale si offre come occasione di autocoscienza. Obiettivo perseguito ispirandosi a certo spontaneismo creativo, che l’ampio successo ha ormai imposto come fenomeno di rilevanza sociologica, se non culturale.
I prodotti amatoriali per lo più assemblano tre ingredienti: immagini riprese con video o fotocamere, musica concepita come colonna sonora del filmato, diffusione dell’elaborato a un pubblico ampio e indistinto, specie tramite siti web. In tal caso, ricetta e applicazioni dipendono interamente dal gusto degli autori, gli spettatori si limitano a obliare o scegliere.
Anche nell’intervento artistico invece fondato si ripropongono due fattori del video dilettantistico: ambientazione e musica, resi imprescindibili dalla familiarità con i non luoghi individuati da Marc Augé, gli spazi anonimi come centri commerciali o aeroporti, in cui si transita per il solo completamento di un’operazione. Qui la variante consiste, però, nella partecipazione imprevedibile di un pubblico attivo.
L’autore – sia egli architetto o artista – concepisce ora la sua realizzazione come una sorta di videogioco animato dai fruitori, la cui coscienza del ruolo e dei modi incide sulla qualità dell’esito, ma senza la quale il risultato apparente permane, purché i fruitori si rendano anche solo istintivamente disponibili agli stimoli offerti.
Lo spettatore è impiegato dall’artista, non in senso didattico ma, con una punta di cinismo, per garantire animazione all’opera. Se la disponibilità è piena, l’opera ingloba lo spettatore nella sua interezza psicofisica, altrimenti riecheggia e conferma – solo variandone il tono – comuni riti quotidiani scanditi da muzak di sottofondo.
Esempio significativo è il centro di design Stilwerk recentemente realizzato da Jean Nouvel sul canale del Danubio, a Vienna: chi si sposta al suo interno può associare i tracciati prestabiliti alla visione di installazioni pensili di Pipilotti Rist, in competizione con il cielo; oppure – immerso nella musica filodiffusa e nei suoi circuiti mentali – limitarsi a salire e scendere le scale mobili, acquistare oggetti d’arredamento, sedere al ristorante. Senza pedine mobili al suo interno, il luogo ricorderebbe un flipper spento; il flipper si anima se le biglie rotolano, diventa un gioco quando esse reagiscono ai colpi variati delle alette.
Il valore dell’opera è dunque duplice: in superficie, esso consiste nell’installazione, effimera o permanente a seconda che si tratti di un allestimento di sapore scenografico o di un’architettura abitabile; a un livello più profondo, non propriamente quantificabile, corrisponde alla ridefinizione dell’orientamento fisico, emotivo e intellettuale degli spettatori implicati.
Sembra si possa ora parlare di un’arte bifocale, che è di assestamento del dato sulla distanza assunta dallo spettatore: impossibile ottenere un risultato univoco, il rischio è anzi l’accumularsi di momenti mai aggregativi, e la legittimazione anche di psicologismi di maniera: la musica che ascolto si coniuga alle immagini che in quel momento affollano la mia mente, ai gesti che compio; sono in una soggettiva cinematografica, conduco un monologo interiore in un set connotato in senso artistico.
Ci staremmo così confrontando con un’appendice postmoderna del Surrealismo, che sostituisce all’inconscio dell’artista il passo interiore del pubblico: l’arte attuale corrisponde forse a un esperimento di reinterpretazione di sé in segmenti di esistenza parallela, conferma e amplificazione dei frammenti autobiografici sparsi nella globalità delle realtà virtuali.