[un dolore solo]
un frattàle di una nota
che organizza il tempo
e in ogni altra dimensione mg
Ascoltare Mariangela Guàtteri che legge Stati di assedio, fa delle parole un’enormità visibile: è fare esperienza dell’enormità di una visione inversamente proporzionale al numero delle parole usate per dirla. Stati di assedio è ideato, secondo precise restituzioni architettoniche a una gigantiasi, nel senso di deformità per eccesso, ben compresa nel singolo dettaglio e riprodotta secondo precisi stadi. In questo lavoro, che l’autrice stessa definisce articolato dalla paura, la costante a stordire del terrore è arginata da un controllo lineare in un assemblaggio plausibile che risolve l’espressione algebrica dell’emotività innescata nel concetto di paura. Nel pixel infinitesimo di un frantume verbale c’è già l’affresco di tutta l’opera. Ma non su di uno schermo. Tutto l’affresco della Guàtteri non si compone per schermate. Giorgio Bonacini nella prefazione infatti avverte della qualità di “disegni sonori” della lettura che si sta intraprendendo, riprendendo due parole che compaiono tra i primi versi del libro, che poi l’autrice, come altre formule, reitererà. Puntuale, la voce della poetessa, impegnata nella lettura dei suoi versi, fa intendere che quel disegno è solo l’ossatura che compare sul foglio. La lettura che Mariangela Guàtteri fa della sua poesia dice come una poesia autenticamente dissennata, elargita da una pianta perfetta, sta nel suo, pronta alla dizione, in una vocalità vicinissima a tre punti dell’essere estremo: il potere, il piacere, il dolore. Dico dissennata come segnando un confine tra il senno e il non senno che induce lo stremo dell’essere alla veggenza. Il testo è anche diviso in queste tre parti, che l’autrice chiama Neurosi. Neurosi I il potere, Neurosi II il piacere, Neurosi III, il dolore. “Le Neurosi sono allora tre segmenti di un solo programma articolato in routine, veri e propri code-verse annidati nel corpo del testo” (Federico Federici). Le Neurosi sono il blackout delle normodotazioni umane. Se il potere è “la detenzione di esistere”, il non potere risiede nella sparizione della volontà a modificare, quindi nella scelta di non avviare “un processo volontario di alterazione”. A ridosso di questo concetto è avvertibile tutta una proliferazione politica che la Guàtteri controverte dalla società ai corpi che la compongono con un linguaggio tecnico tanto più crudo quanto più si rivolge a materia organica. Cessare il solco della propria volontà sull’asse ibrido dell’orizzonte comune, significa accostare per gradi sempre più spaventosi l’azzeramento, in un incedere paritetico al proprio fenomeno “sognare polvere in rivolta che mostra i lati” perché solo “un accesso immediato si trasmette l’esistente” altrimenti perduto nell’alienazione metodica delle scelte. Nel parlare a sé rivolti, può stare il primo grado dell’azzeramento, il vero riconoscimento che avviene trasecolati dai desideri, giunti all’oscuro del tempo e di qualsiasi altra coordinata, nella circostanza immobile di essere uno che è mosso dal fatto plurale di venire assediato “senza mediazione/mi parlo/distillo/la purità muove/e ho gusti di darmi desiderio che infiamma per essere ogni mio tutto”. Venire presi dall’imboscata del dialogo con l’elemento alternativo di se stessi, ossia venire presi da un sé alterno che non subisce l’apoteosi di comparire, è come attraversare un desiderio barbaro e nullificante, che scatena la mossa della paura, è come essere trafitti da una corrente incontrovertibile che conduce alla continua verifica di esistere, enunciando se stessi a partire dal corpo e dal sangue “la paura mi conduce al peccato/col vostro corpo salvatemi/col vostro sangue inebriatemi”. E’ il corpo come presupposto fallace all’esistere che bisogna parossisticamente comprovare. E’ “l’indigenza del divino” che dà al corpo la separazione che lo rende vuoto, e che spinge alla gara iniziatica di un’azione radicale, un’azione che recida di netto la sensazione di non appartenersi. E in tutto il disamore che c’è nel potere questo, “vince chi muore per primo”. Tuttavia la Neurosi II, si apre con la definizione del piacere che per quanto sia non più la “detenzione” ma “l’abbandono di uno stato di esistenza” (che lascia ancora ogni intenzionalità a margine) esso conduce per cedimento ancora più da presso alla zero distanza dal baratro che separa il corpo e il suo latore. L’autrice a questo punto fa sapere che il corpo ha una possibilità nel piacere, cioè quella di giungere “in procinto di essere anima”, e ciò accade in virtù di un’imponderabile “contagio” con l’altro. Dalla Neurosi del piacere scaturiscono tutte le mosse corporee della metafisica animale, ed è un catalogo snocciolato di seguito, trattenuto il respiro, quello che catapulta la cognizione dalla Neurosi del piacere all’alienazione finale. Nella terza Neurosi il dolore confina il libro e l’esistenza. Là dove il potere, o il suo contrario, ha liberato i corpi dall’esistenza codificata e il piacere ne ha reso plausibile direttamente nella carne la sottigliezza inumana, il dolore è un buco “lo stato di ansia collettiva che diserta la memoria”. L’essere, reciso dal ricordo di poter ricordare, è eviscerato, per cui non nutribile. Il dolore è una costrizione che rende inagibili a tutte le dinamiche di scarto, in cui l’azzeramento smette la ricerca nell’inedia definitiva che prelude al distacco. Il dolore inghiottisce da “un pensiero assoluto”, così trascendentale che disgrega corpo e ambito, come sgranando il rosario circolare che non si interrompe malgrado l’interdizione dolorosa pare compiersi nel nulla da cui ancora è vinto, chi muore per primo.