Enrico De Lea, inediti da "La furia refurtiva", con una nota di Giorgio Bonacini

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dalla sezione Serpe di Laconia



(introibo)


Risibili alle passioni del rapace
falcidiato volto,
la presa pur convinta della mano
e il mesto freddo della pietra
lavica, come di profilo
calcidese o messenio, mercatante,
profugo da un mare,
per cui levare l’acqua all’occasione
d’umiliato controllo, debito
all’occhio ionico, tra brume.



(prospettiva dell’ascesa)

Dentro, nel corpo di, nel calco di
calcaree divinità sostantive,
degne del lampo della sparizione,
si decide ora un vento,
la sua seta d’ascesa
da un arco di vicolo a tribona.
Questo, ovvero l’altro, sopravvissuto
monte dei dolori, il postumo
suo ciottolo si slega – era scalone –
all’aria prospettiva.
Dall’idea delle mappe qui si compie
la ventura inclinata dei muri
nella dimenticanza delle luci,
un’onda di diniego dai terrazzi,
specchi in frantumi tra fontane erose.



(la furia refurtiva)

La furia refurtiva
archetipo discorre, lo riscuote
muto bronzo dell’epoca,
tonante, tinnante, sempre
per manufatte lastricate
strade in pietra d’avi,
nell’infanzia del morente
si consolida, l’orante.

 

 

dalla sezione terra picta

I

S’accosta, da un’urgenza
di luce, nell’oscuro strappo
della volta, nel tremante
saluto della mano,
sul dorso un rossore
di nerbo, ustione, nutrimento.

 

V

Profili disegnati dalla marea –
è la visione delle ginestre in alto.
il vento dall’interno accatasta
barche e nuova smania
per la fuga. Al disfarsi dell’aria
un varco nel seccume
del greto ieri navigato.

 

 

 

Se è vero che una fra le caratteristiche proprie della lingua poetica è la destrutturazione e una diversa articolazione del normale sistema di significazione linguistica – nelle diverse forse sintattiche o semantiche – qui, nella scrittura di Enrico De Lea, si manifesta anche un altro operare: la sua scrittura sottopone il linguaggio a una concentrazione tale da non poter più dividere, nel suo andamento, la lettera dalla figurazione. La parola condensa al suo interno una lingua che aderisce in modo indissolubile alla cosa stessa di cui fa esperienza. Ci troviamo nel vivo e nel fondo della lingua dis-ordinaria delle cose, “dentro la “gola/ del cielo minerale”, dove il senso si prosciuga, smagrisce e quasi pietrifica. Ma questo non significa un impoverimento o una perdita del significato, bensì una sua riattivazione, a partire da un corpo essenziale, in direzioni indeterminate. Alcune sfuggenti, altre misteriose e oscure, ma tutte potenzialmente capaci di sprigionare il loro carico di sostanza concreta.
Questi testi sembrano non regalare nulla di già dato, di già conosciuto, sembrano scolpiti in se stessi  e tesi a rappresentarsi per sé in ciò che hanno inglobato di esterno. In realtà è proprio in questo rapporto totale con l’esterno, che si manifesta il dovere e il desiderio (per chi alla poesia dedica il proprio pensiero) di apertura. Il lettore è obbligato a spaccare la scorza che ne ricopre la voce. E, paradossalmente, questo obbligo è un regalo, perché guardando dentro lo squarcio si trovano i semi di una passione di poesia. E così De Lea mette in atto la costituzione di una crescita continua “verso l’alto”, alla ricerca di un “rifugio/con percezioni d’altro”.
Ciò vuol dire che qui la parola non ripiega mai sull’io dell’autore; è come se si facesse da sé, come se ogni testo fosse già inciso in autonomia. Lo stesso titolo “La furia refurtiva” vive in un’ambiguità semantica in cui non si sa se ciò sia materia di furioso furto o oggetto di furia derubata. Il senso non propende né da una parte né dall’altra, e sembra quasi che l’autore non partecipi della sua scrittura, ma semplicemente mostrando ciò che è scritto. Infatti nella poesia eponima tutto si svolge “per manufatte lastricate/strade”. Ma in fondo a questa forma dura si muovono esistenze che provano a dire, a smuovere l’ammasso che li stringe, provano con le uniche armi possibili per la poesia: il suono della voce e il fruscio della scrittura. Ma ci vuole anche umiltà, consapevoli che spesso la lotta si fa con “derelitti fonemi”, strappando un pezzo alla volta nell’oscurità, balbettando, incespicando, ma sempre scrivendo, anche solo un poco, anche solo un niente.
De Lea, con la sua metafora concreta, ci restituisce un reale di purezza: senza fronzoli, senza ingenua innocenza, un reale tutto dentro le frasi come grumi calcarei, dove il formarsi di una crepa è una ferita all’umano pensiero di ogni tempo. E’ così, allora, che il sentimento che pervade questa raccolta di versi diventa qualcosa che può sgretolarsi come terra secca, o bruciare con uno sfrigolio continuo. Ma non c’è scelta, perché se gratti il “gelo di verità” che ricopre ciò che vediamo, ne risulta solo una “schiuma per le dita”, o soltanto “polvere senza peso”.