Alfonso Lentini, da “Il morso delle cose”, con una nota di Giorgio Bonacini

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Alfonso Lentini

Il morso delle cose

 

Muovere la parola: è questo il tentativo (e dobbiamo dire, riuscito) che Alfonso Lentini mette in opera in queste poesie. E lo fa collegando, in una struttura mobile, la scrittura di tutte e quattro le sezioni di cui il testo si compone. Ma è nella prima parte che troviamo una felicissima immagine che configura e riassume il senso di questa idea in un moto poetico: “e i sandali/scritti/di ghiaia”. La metafora è semplice, ma il processo di significazione che vi è condensato dà la misura giusta di un linguaggio che si prefigge di non rinunciare a ogni sua possibilità: per creare un mondo che si articoli e si misuri, attraverso i testi, con proprie specificità.

Ed è proprio la scrittura (come attività materiale e come sostanza conoscitiva del fare poesia) che, fin da subito, prende vita e dà vita con due parole fondamentali: “ti scrivo”. Questo semplice atto, che viene ripetuto più volte, non è solamente un richiamo a un destinatario femminile: da lì parte un vero e proprio concentrato lirico (sviluppato in profonde sonorità, ritmiche e significanti) che, con una grande felicità di trasfigurazione delle cose e ricchezza di forma nell’incontro con la parola, rende tutto il percorso essenziale e coerente con il movimentato fulcro che lo regge, lo anima e dalla cui sensibilità si sprigiona. Fulcro che emerge con l’immaginazione e la forza di chi è deciso ad aprirsi una via che parli, che indichi una direzione, o anche solo una traccia, “in questa massa/ di luce graffiata” che lentamente, ma vibratamente, “a voce bassa” l’autore esplora. Ma anche dove una certa staticità è resa esplicita nella visione fotografica, c’è sempre un movimento che origina, che sta dietro e affiora: nelle foto che Lentini dice, ma non descrive, attivando solo la nudità della scrittura, il viso e lo sguardo sono mossi, perché nulla è fermo ma tutto è “oscillante nel moto/perpetuo delle cose”.

Ma è nella seconda sezione, quella che dà il titolo alla raccolta, che la voce, andando verso un tu solo raffigurato in trasparenza, prende corpo e accentua la sua fisicità. Qui, con grande coerenza, la parola concretizza (con musicalità di assonanze interne e rime) la sua intenzionalità fonica: quasi un vocalizzo visivo che innerva e morde la lingua: la graffia, la soffia, la scioglie e ne allenta il morso sibilando in “fili/ e sillabe...”. C’è una necessità, di forme e sentimenti, in questo vibrare (e forse anche tremare) totalmente corporeo di pelle, bocca, caviglie, scapole, denti; c’è un bisogno di smuovere il senso della parola dalla sua natura fonica, alla sua materia ossea e carnale: in definitiva unificare voce e vita. Si scrive col corpo, e il poeta lo sa. Per questo Lentini ci porta, nella terza parte, in un viaggio reale in Marocco: non per raccontare, ma per scrivere il tragitto e il passaggio. E questo lo porterà alla fine, con un ritmo settenario battente, a sprofondare vorticosamente e visivamente, in un’esistenza segnata dal ritmo pronunciato dal senso del nome. Un nome che è nascosto, è universo, è ferito, è uccisione, ma è tutto ciò che unifica e rende indistinguibile la proliferazione dei sensi. E lì, nella molteplicità del soggetto che scrive (una cadenza di determinazioni che si autoproclamano: io sono... sono...sono...), ritroviamo la ragione, o se vogliamo la causa, di ogni poesia: “sono solo domanda”.

 

 

Da Laus creaturarum

 

1

il mio nome è nascosto

 nelle ceste del pane

  sono nero e impaziente

   non ho braccia né lingua

    ma lunghissime ciglia

     la mia maglia è strappata

      sono assente e respiro

       miro al cuore e ai polmoni

        ho calzoni d’acciaio

         sono in cerca di un occhio

          specchio spento e graffiato

           sto chiedendo uno strappo

            spacco vetri e sorrido

             grido e lecco ferite

              sono zebra che cerca

               di parlare ai gabbiani

                sono donna e montagna

                 vendo schiuma di mare

 

2

sono azzurro e inchiodato

 il mio nome è valigia

  sono il tasto sbagliato

   che cancella la riga

    vedo un lupo di ferro

     mangio nuvole rosse

      sono un carro di fuoco

       gioco i numeri e aspetto

        sono un gatto stregato

         sono polvere d’ambra

          sono zolfo ed allume

           tocco un fiume e mi accosto

            il mio nome è nascosto

             nella cesta del pane

 

5

il mio nome è immigrato

 il mio nome è ferita

  è gheriglio di noce

   permanenza, il mio nome

    è cancello chiodato

     tengo un capo del filo

      l’altro è in mano a un soldato

       sono senza ragioni

        mi concedo al futuro

         come un campo incendiato

          sono azoto disperso

           sono sabbia e paura

            il mio nome è figura

             il mio nome è universo

 

Alfonso Lentini è nato in Sicilia nel 1951 e dalla fine degli anni settanta vive a Belluno. Opera nel campo della scrittura, delle arti visive e della ricerca verbo-visuale. Fra i suoi libri: L’arrivo dello spirito, Perap 1991; La chiave dell’incanto, prefazione di Alessandro Fo, Pungitopo 1997; Mio minimo oceano di croci, Anterem 2000, finalista al IX Premio Lorenzo Montano; Piccolo inventario degli specchi, Stampa Alternativa 2003.