Lorenzo Carlucci, da “Sono qui solo a scriverti e non so chi tu sia”, con una nota di Giorgio Bonacini

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Lorenzo Carlucci

Sono qui solo a scriverti e non so chi tu sia

 

Tante e indeterminate sono le modalità con cui la poesia misura la sua efficacia linguistica e concettuale, ma tutte tendono a spostare, decentrandolo, il centro conoscitivo che l’esperienza del pensiero (di chi scrive e di chi legge) si propone di attuare. Nei testi di Carlucci si assiste a una concentrazione di senso in cui la possibilità del dire non eccede mai la sua necessità e la sua appartenenza al fare poetico. Ma ciò non significa affatto che ci si trovi in presenza di una scrittura, per così dire, avara: quella che affiora è una precisa coscienza del limite in cui la parola viene a trovarsi. Chi ha troppa urgenza e non misura l’invadenza di quanto dice o scrive, spesso “ha detto una parola di troppo/.../e quella parola ha desolato il cuore, ha spento l’orizzonte”. Un’esattezza del linguaggio che lascia però alla voce la possibilità, se vuole, di suonare in affanno o regredire o impoverire lentamente o sfidare il silenzio: insomma essere comunque sempre viva, mai bloccata in rigidità formali istituzionali che ne svuoterebbero il pensiero.

E questi testi sembrano proprio avere origine da una capacità di presenza e proiezione tali da sfociare in una libertà esistenziale, tracciata sul corpo: “una carezza che graffia la pagina rossa dei nostri toraci nudi”. Ma non c’è nulla di ingenuamente contenutistico in questa appropriazione vitale, bensì una consapevolezza, data al poema, di percezione nei confronti del mondo: vedere l’esterno come pagina scritta e significarla in più, portarla sempre un po’ più in là. Carlucci cattura la visione della parola in sé, dove la parola è una cosa senza intermediazioni artificiali; pensa e concretizza una poesia in cui “tutte le forme sono rotte”, e nonostante questo, ma forse proprio per questa sua forza di distruzione, può dire: canto. Possiamo chiamare la sua poesia come vogliamo (prosa poetica? poesia in prosa?), ma ciò che conta è che egli riesce a catturare la vita (il dolore, la desolazione, l’amore, l’illusione, il sogno, ecc.) attraverso l’emissione di una “povera voce”: un’ essenzialità che è l’unica cosa di cui la poesia ha bisogno, per rompere e sovvertire il tradizionale stare nel mondo, spaccando i mattoni della lingua ordinaria, ma anche della lingua di una certa poesia bloccata in sé, nelle sue presunte verità.

Insomma, ci sembra che uno degli aspetti più significativi di quest’opera sia la capacità di operare con un linguaggio che scava al fondo di ciò che è sconosciuto, e che tenta, non tanto di conoscerlo unilateralmente (dandogli un nome preciso o definendolo in una o poche singolarità), ma di guardarlo dentro, riconoscere l’avvicinamento a se stesso “attraverso il bene degli altri”. In questo modo il punto di vista soggettivo si apre, senza ideologie o dogmi conoscitivi, nel tentativo di percorrere l’interiorità poetica cercando di interrogare, di rinnovare, di rimodulare l’esistenza per parlare di “tutto ciò che non so ma che so come spiegare”. Dunque provare a dire (per scoprire) ciò che non si sa, con forza ma anche con umiltà, nella consapevolezza che il mondo assume una forma reale quando viene scritto: non perché non esista indipendentemente, ma perché esserci dentro non è solo stare lì, ma meditarlo, ritagliarlo, frantumarlo nelle tante entità di una lingua a cui la poesia dà senso.

 

 

Testi poetici

 

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Olimpia mi spiega, guidando su questa strada interstatale, i segreti della numerazione delle highways. Come “pari” significhi nord-sud, “dispari” est-ovest. Come “pari” significhi ancora intorno, “dispari” attraverso. Mi spiega anche, senza parlare, muovendo il sorriso come un radar della polizia lungo la circonferenza del paesaggio che scorre, come il sentimento del bello che proviamo anche in posti del tutto anonimi nel nostro paese sia in larga parte, e forse del tutto, determinato dalla famigliarità dei luoghi che vediamo, un tessuto di segnali che non riconosciamo apertamente, ma che ci battono come i tasti di una macchina da scrivere su un foglio già scritto. Mi viene in mente allora che esistono poeti che scrivono come se si battessero a macchina sugli occhi, sorrido, e sono felice come un bambino quando allunga la mano in un freezer per prendere un ghiacciolo, e ha il braccio troppo corto, tenendo tra le dita il lembo della gonna di Olimpia.

 

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(encore)

|...| e forse mi prende per mano o forse aspetta qualcun altro. Meglio credere che mi prenda per mano, sì, mi prende per mano e mi porta un po’ a spasso, lungo le strade vuote di notte, mi porta in un posto, o soltanto in un tempo, nel quale non esistono orgoglio e paura, nel quale non esistono indugi, mi porta in un tempo, o in un ritmo ch’è il ritmo del suo passo, e tenendomi per mano, e senza espressione definita, e quasi senza esserci (questa è la levità della sua presenza), mi porta a camminare sull’asfalto nero bagnato dalla pioggia, come i suoi occhi. Come la sua mano, la mano di una madre tra le scapole di un figlio, a un funerale, come la sua mano la luna è bianca, di pelle bianca, in un viso di occhi blu cobalto.

 

Lorenzo Carlucci è nato nel 1976 a Roma. Filosofo, è specializzato in logica matematica alla Normale di Pisa. In poesia, ha pubblicato: Semeyazah – il mionome ha visto, ADR 2002; La Comunità assoluta, Lampi di Stampa 2008 (finalista al Premio Diego Valeri 2008); Ciclo di Giuda e altre poesie, L’Arcolaio 2008.