Maria Pia Quintavalla, una prosa inedita, “La tragedia di Augusta”, nota di Mara Cini

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Un affresco dalle tinte bluastre, un immenso camposanto marino dove le forme della morte, nell’incessante trasformazione delle cose, diventano di nuovo vita. E’ una vita liquida, germogliante, vibrante nelle correnti profonde di acque ascensionali in una vertigine che avvolge.

Certe disperate vicende, nella cornice del racconto, luccicano di sacralità e bellezza (donne che come vele si alzano, non è un Compianto di Jacopo della Quercia? morti che volano, non è una scena del Correggio nella Cattedrale di Parma?).

Sono notizie di migrazioni e naufragi che i reportages giornalistici non riescono a descrivere nella loro portata tragica, Quintavalla le ricompone in un contrappunto di immagini fluide attraversate da musica e silenzio, acqua e siccità, luce e buio dove gli accenti di tutte le lingue si fondono in un salmo.

Da qualche parte Maria Pia Quintavalla ha parlato di una sua lingua apneica, una lingua e una scrittura che non sembrano estranee a questo testo.

 

La tragedia di Augusta

  1. I pesci scappati dal fondo del mare impazziscono come asteroidi in forze centrifughe, ma dividendosi esplodono divergono tuttavia in lampi, come luminosi spazi, da entità marine stellari. Le assi diagonali in legno sembrano già fradice da notti, se hanno bevuto tutta quest'acqua e la trattengono; da questi legni fessurati dall'acqua. Da questi tagli uno strano mormorio di attese sembra salire e alludere a un intrecciarsi anche là dentro, ai gesti: del povero cibarsi, e dei corpi, ma poi deposti e abbandonati, poi enfiatisi nell' acqua, che si avvinghiano. Chi può vedere da quale occhio celeste vivente l'intreccio, non ancora marcescente ma mobile, e quasi di gomma, di bocca e piedi, di teste annodate che cercano di separarsi dal blocco che fu di carne. Ma questo ultimo è nascosto dalla fuga dei pesci. il fetore è nascosto o velato dalla fuga dei pesci. Le grida indisseppellibili a oratorio, ecco sono nei gesti di abbraccio, un poco come nelle camere pompeiane finite sotto la cenere. Mi avvicino, lentamente, e guardando da una fessura, un sottile taglio come l'interno del legno, subito ammollato e marcito, che mi fa intra-sentire intra-immaginare, e vedere infine il groviglio dei corpi, intrappolati come acini di un frutteto divino.

Ma io lo vidi già, era narrato: fin da bambina, nella corona di nudi e angeli della Cattedrale di Parma, disegnata e dipinta nella visione di Antonio Allegri, detto il Correggio, e questa è una simile ascensione, ma orizzontale, dove tutti cercano spazio, e lo comprimono anche, tutti, e si disperdono, anche alla fine. Materia nel liquido, carne che fu ossa e sangue e non gomma, e non blu morte ma vita, delicatamente corpi sacco, velati dalle acque, lì sprofondati e che l'hanno bevuta fino al punto della terra un equatore zenith, dove eravamo oceano su oceano. Una forza centrifuga, a onde, disegna un movimento come cullato, una leggera distonica musica spezzata: sono i morti, i semplici (e bellissimi) morti che volano nel cielo delle acque profonde, al largo della costa libica, nel blu scuro e macchiato di morte, del mare Mediterraneo. Quelle dita tumefatte hanno perso escrescenza, dopo che reso molle e gommoso lo scheletro tutto, ma non hanno esaudito un destino, o l'hanno fermato alla domanda impigliata nell' enigma dei gesti, nelle strette ultime dei tumefatti: queste voci sono nella gola del mondo. E loro: gli afflitti, i perseguitati, gli assetati di giustizia, lo hanno sottovalutato troppo il peso del mondo, questo peccato dei poveri di spirito. La potenza della realtà che sconfigge il loro atavico, il loro grande - di già perduto – sogno di vivere nella vita, la propria vita. Vivere nella pace l'esistenza di sé, e dei propri figli. nella onesta ricerca di un lavoro una casa una patria terra. In un esodo non scelto, ma dovuto alle guerre e alle carestie alla fame e alla predazione.

Ora, questo immenso camposanto è marino, l'assenza di pietà umana ha scelto il colore dell’acqua per manifestarsi, un cielo capovolto e profondo pieno dei pesci ora in frotte, ora in fuga. Secondo le parole di papa Bergoglio questa è la bancarotta dell'umanità che non ha trovato per ora, salvatori e salvezza. "All'interno del relitto, secondo quando accertato dalla Marina italiana, sono stati recuperati :458 corpi senza vita; a questi ne vanno aggiunti altri 169 raccolti sui fondali circostanti altri 48 ritrovati, che si avvicina molto alle 700."(Corriere della sera, 16 luglio 2016, Claudio Del Frate). Ma la scoperta che in cinque, in piedi, stavano in poco meno di un metro quadro disegna bene il come.

  1. Hannina e Omar viaggiano da due lune e imprecisati soli, hanno poco alla volta smesso di parlare, e raccontarsi a parole nell' intreccio delle mani; a sera, quando il vento è calato e l 'acqua del mare da bere è stata sostituita dall' urina, e dal succhiare vecchie bucce sudice, che erano già seccate, o la pelle di frutta. Il loro silenzio è più soave dei pasti infetti della fame, croce che sta dentro il corpo e lo taglia in parte muta e parte che emette strano risucchio, doloroso sempre; i pasti dei bambini e dei più vecchi, non ci sono più né come favoriti né come protetti; né quelle donne che come vele si alzano, da accovacciate e strette, e solo a volte attaccano al nero dei capezzoli i loro piccoli, ma senza cavarne nulla.

Quando la luna si stacca dal fondo del mare, e sorge, è splendente anche per quelle anime di disperazione, e il vento le illumina, lente ombre di tenerezza. Conosciute nella vita dapprima, e sole, era tutto diverso, erano giovani erano vecchi, erano uomini nel fiore degli anni, erano coppie come Hannina ed Omar, e camminavano, avevano strade bianche e sabbiose o piene di terra, camminavano. La secchezza e il non farsi più domande ha fatto posto al miraggio di silenzio e alla rassegnazione. In realtà silenzio non ce n'è mai abbastanza, fra il rumore di acque irreali e immobili e dei venti, delle scie del barcone che trascina sé e loro, noi tutti e nessuno, esclusa questa notte al termine della notte... Gli accenti di tutte le lingue si fondono in un salmo.

Che succede. Staremo qui? ma no, era solo una pressione fra l'aria e il carburante, chi l'ha detto. Perché quel ragazzo piange allora? Ma lo vedi quel punto sotto la luna. E' una barca chiede Amina. Ashef batte le mani, ha quasi dieci anni, se è una barca ci salva e ci porta in Italia, vero? No, non lo sappiamo e non ci sono barche qui vicino, risponde la madre.

Non è nessuno, dice Mohammed, è una stella, e tu stai male, vai a dormire. Chi dorme mi stringe un osso. della mano fino a farmi malissimo, ma non la sento.
 


Maria Pia Quintavalla, nasce a Parma, ma dal 1983 vive e lavora a Milano. Poetessa e narratrice, si occupa anche di critica letteraria e collabora con l’Università Statale di Milano.

Tra le sue opere di poesia: “Cantare semplice”, (Tam Tam Geiger, India-USA 1984); “Lettere giovani” (Campanotto Editore, Pasian di Prato 1990); “II Cantare” (Campanotto Editore, Pasian di Prato 1991); “Le Moradas” (Empiria, Roma 1996); “Estranea” (canzone) (Piero Manni, San Cesario di Lecce 2000); “Corpus solum” (Archivi del ‘900, Milano 2002); “Canzone, Una poesia” (Pulcinoelefante, Osnago 2002 e 2005); “Napoletana” (Copertine di M.me Webb, Domodossola 2003); “Le nubi sopra Parma” (Battei, Parma 2004); “Album feriale” (Rosellina Archinto, Milano 2005); “Selected poems” (Gradiva, New York 2008); “China. Breve storia di Gina tra città e pianura” (Edizioni Effigie, Milano 2010); “I Compianti” (Edizioni Effigie, Milano 2013).