Viviana Scarinci, “L’amore senza persona”, saggio su Giuseppe Piccoli

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Nota dell'autrice

L’amore senza persona è uno scritto che appartiene a una fase iniziale di un percorso conoscitivo riguardante la figura di Giuseppe Piccoli. Percorso che in un secondo tempo, rispecchiando il mio personale approfondimento della sua poetica, mi auguro vedrà la luce in una pubblicazione più ampia. Tuttavia il mio amore per la figura di Piccoli non è recente. Risale al 1997. Quell’anno, in occasione del decennale della sua morte, la rivista Poesia, pubblicò sul numero 103, alcuni inediti a cura di Arnaldo Ederle. Lettera per una domanda di perdono, la poesia analizzata nel testo seguente, era appunto compresa in quella pubblicazione.

 

 

L’amore senza persona

“e sarò il tuo concetto
d’amore, debole, senza persona” G.P.

Come in una sinusoide la poesia di Giuseppe Piccoli, in un quadro che ne escluda la cronologia, somiglia a una fluttuazione che assume i caratteri del picco e del recesso, a seconda degli spostamenti di una coscienza poetica assai singolare. Sorvolando su quanto questo si leghi alla patologia che tragicamente gli governò la breve esistenza, qui si vuole solo sondare superficialmente gli effetti, che un dato moto, nel ripetersi, genera su una poetica originale, spesso sorprendente, come quella di questo straordinario poeta.

Il patrimonio poetico che la poesia di Piccoli costituisce è per la maggior parte inedito e frammentato in pubblicazioni di non facile reperimento. Inoltre, anche la cronologia della sua opera non è di semplice ricostruzione. E ciò ha stabilito, prima come un’esigenza, poi come una fascinazione cui è stato difficile sottrarsi, questo pormi all’ascolto, in un modo del tutto improprio ossia leggendo il poeta, come sperimentandone empiricamente il respiro. Una lettura cioè che, a prescindere dalla collocazione cronologica delle poesie analizzate, le raccolga in un tempo zero che ne metta in luce ciò che intuitivamente mi è parso il movimento costante di questa poetica. Compresi in quest’ottica i versi sembrano come pronunciati da un moderno Orfeo che si ascolti parlare, ora dalla superficie e ora dall’infero stesso. È da immaginarsi, questa poesia, per assurdo, come fosse una vera e propria fluttuazione, come il ritmo costante di una respirazione vista nel suo aspetto di coscienza del respiro in un punto di concentrazione recondito che è la radice umana dell’aria, e dello sperdimento, che procura l’esalazione di questa radice. Così la parola di Giuseppe Piccoli assuma il carattere innato del respiro e insieme il suo aspetto di estrema necessità. Qui è assai forte l’impressione di una parola poetica che si lega a una fluttuazione della coscienza, da un recesso interiore alle labbra, alla pelle, cui il poeta approda, proveniente dal suo abisso, con l’angoscia che questa non protegga. Pare con ciò che in questa poesia convivano due lingue di provenienza. C’è una lingua pulitissima, lapidaria. E assai consapevole. C’è ne un’altra aulica, quasi leziosa. É la prima, quella legata ai recessi, la più ariosa, la più illuminata da un sentimento di complessità che non tradisce spavento nella dizione del suo infero. E una seconda che diventa leziosa fin quasi al querulo, quando risale alla percezione epidermica, al mare magnum della superficie abitata dal mondo di sopra.

La scelta di analizzare la poesia “Lettera per una domanda di perdono” è data non solo dall’indiscutibile bellezza del testo ma perché nella sua struttura, rappresenta pienamente la sinusoide in cui Piccoli (malgrado la sua opera sia ancora tutta da studiare e ciò ne rappresenti solo un aspetto) non veste i panni di Orfeo, in un orfismo di genere, ma ne dimostra la sua incarnazione, tornando a essere il poeta che per primo fu chiamato a porsi tra fisica e metafisica senza la difesa di un ruolo che ne regoli la coscienza ma solo con il respiro come bussola.

“L’esperienza ci ha strappati
l’uno dall’altra, amore;
l’esperienza ci ha rattristati
l’uno nell’altra, amore;
e il mio “tu” e il tuo “tu”
si perdono nel vento:
quale furtiva foglia
asciugherà il pianto del rubinetto?
Quale cotone assorbirà
il mio canto?
Io nudo come il cielo;
tu troppo densa, troppo carica,
troppo, troppo.
Sbaglio le parole e suono
come un peccato, come una percossa,
come un tradimento, come una pazzia.
E tu, se mi disegni a lungo,
mi perdi. Ritrovami
nel giuramento della sera:
io sono
il dèmone del dramma e della catarsi.
Ma per raggiungerti in purezza
dovrò mangiarmi le mani?
La tua bocca mi guarda e io svanisco,

insano dentro una perla
umida di nebbia.
Le tue mani mi dividono
e io scivolo
in un tempo di zanzare.
Resta solo di me il bicchiere
di questo seme sparso sul cuscino;
le radici di questa barba
che abbrutisce il cuore;
il grido di questa gola
che nessuna pastiglia addolcisce
e questa rovina che assapora
tutto il pudore che mi resta,
tutta la malizia che ho consumato
e tutto il canto.
Vieni, e credi di nuovo
che il mio corpo, sposo del tuo;
che il mio silenzio, padre del tuo;
che il mio canto, fratello
della tua amarezza
raggiunga il dio nel tutto che supplichi
e s’allontana.
Non ci sono più ossa, ma rose;
non ci sono più muri ma strade;
non ci sono più inverni, non ci sono:
tra poco è marzo, vieni,
camminiamo.” (1)

L’esperienza separa, l’esperienza rattrista. Sembra da questi versi iniziali, come se da un punto noto e inamovibile il poeta osservasse il percorso che avrebbe potuto autenticare il suo presente adulto. Vista da qui, l’inamovibilità di questo poeta risiedere nell’adolescenza, forse nella frattura non ricomponibile di un osso fragile ma anche nella prepotenza inesausta che la poesia esercita con la sua complessità, sulla coscienza galvanica di un giovane poeta, prima ancora che la si nomini come tale. “L’adolescente (Piccoli) ha tratto dai libri aneddoti dalla valenza enigmatica che si concretizzano poi nella sua poesia in una fuga che pare fondamentalmente riconducibile all’archetipo di Orfeo che scende agli inferi per ottenere, in realtà per perdere definitivamente Euridice (…)”. (2)

Da allora, dall’adolescenza, dall’inizio glorioso del viaggio dell’eroe, al ritrovamento e perdita di Euridice, c’è tutto un separarsi e un rattristarsi che riguarda l’ambito adulto e pieno. È attraverso questi versi iniziali, che il poeta sembra guardare da un suo punto inamovibile, all’assenza totale di leggerezza dell’adulto. A ciò si riferisce da adolescente che al contrario è sopravvissuto all’adulto, poiché l’esperienza, nel suo caso, in qualche modo, sembra aver impedito alla maturità il suo compimento. È da questa inamovibilità che Piccoli guarda a un’interlocutrice, una Euridice che oltre a essere “orfica” qui è conchiusa nel mistero dell’alterità, attraente e estranea perché non più rarefatta nell’adolescenza delle passioni indistinte e voraci che brucano ma addensata in un troppo, reiterata in una densità femminea e adulta che la eccede e spaventa. Spaventa senza limitare. Uno spavento che schiude la prosecuzione necessariamente alterata e irrimediabile che fa capo a ogni alterità ravvisabile nell’altro, in superficie. Uno spavento che confonde parole e contenuti in modo da legare per serendipità dramma e catarsi, per analogia consunzione e germe, cosicché si commetta l’oltranza: la visione che nella grande poesia perpetra gli astanti senza riguardarli. Ma ora l’unico potere che due alterità abbiano in questo tu per tu, il poeta lo riconosce a Lei che separa, Lei che è percepita fino alla radice irsuta del volto e da quel bilico canta l’opposto, elargendosi ora in una chimera glabra, ora in una rovinosa caduta del pudore di fronte alla realtà innegabile della propria umanità di genere.

“Dalla finestra
sale un buon odore di fiori,
dalla cantina sale un buon odore
di vino: non è questa, la vita?
Questo grido che mi interromperà
mentre scrivo il mio canto?
Le ciabatte calpestano: “Vengo”;
gli sportelli si chiudono: “Vengo”;
le bottiglie si stappano: “Vengo”.
E le voci? Che fanno le voci?
Cadono e invecchiano
E tu le seppellisci, lontano.
Ed io le riesumo, vicino.
E presto non avrò che tempo
tra i libri; non avrò che spazio
tra i vestiti; e sarò il tuo concetto
d’amore, debole, senza persona.
E cadere nel folto dei padri
e della madri, assaggiando la torta
del sacro e del profano.
Attendo che una porta si svegli,
e che un bambino reciti per me
la morte ossigenata, la fuga espiata,
la pietà saziata, la percossa dimenticata:
tu inseguilo al limite, tu
la casa che sale dagli inferi,
a perdonare se ho rubato,
se ho fatto violenza, se ho maltrattato
sopra e sotto
gli elementi e i punti insaziabili” (3)

Ma non sempre il giorno consente un’oltranza sulle cose. E non sempre deve. Non quando si avvicina marzo: le calende primaverili smagano la visione dell’infero in superfici solari e pure, disdicono le sonorità del profondo, quando chiedono l’oscurità arcaica della vista. E ciò accade con un tale clamore da chiedersi, quale la vita: questa o quella? Quella del vino, del canto e del pane: e emergere a questa con una fatica immensa, di sotto a sopra, da quella a questa luce. Come discernere nelle profondità “nel folto dei padri e delle madri” il lecito dall’illecito? Come differenziare la movenza che conduce il corpo, dal solco che esso genera?
In che tempistica ciò avviene? Come non soggiacere all’impossibilità di sapere il quando, il dove del proprio corpo, mentre qui e ora, in questa superficie piana che è il visibile, non compare la prepotenza di esistere, in quanto compresa in un meandro che non libera il poeta, se non attraverso il verso che lo dice. Come perdonarsi allora la disperata ferocia che arma la liberazione da questo smarrimento?
E chi sarà in grado di perdonare se si ruba una chiave, per evadere dall’insanabilità di una casa chiamata appartenenza? Ma il profondo della casa, nel caso di Piccoli, conclama il mistero delle voci plurime che non gli appartengono ma avendolo scelto, lo straziano per differenza dal suo presente, con un legame tagliente e vorace che lo condanna a sentirsene mai differenziato.

“Ma basta un fiore che dubita,
per dare o ridare salute al disamore:
dubita forse che siamo? che parliamo?
La sua sapienza stagionale
è più forte dei nervi che leggi
nel gas della ragione, quando leggi
i tuoi discorsi disaccordi e mi telefoni
pallida e nervosa. E disfi
la maglia dell’abbraccio, la gabbia
che non suona, e stai zitta, stai
zitta. “Punìscilo” ti dice ancora …chi?
“Punìscilo”, “Puniscìlo”. E tu:
“No: sono stanca. Solo stanca
di vedere le mani, di ascoltare la voce,
e un poco stanca di essere me stessa”.
Io mi attuo. Tu vivi di stanze.
Io ti lascio. Tu ti lasci lasciare.
Io ti guardo. Tu ti lasci vedere.
Non guardi. Ma respiri. Respiri.
E osservo la tua statura,
allungarsi e calare; le tue braccia,
asciutte o insaponate; la tua testa
cerchiata. E sei profonda
come la disperazione.
Ma amo i fiori, per oggi;
e, per oggi sono un ragazzo tranquillo:
e posso renderti cenere, credo.
Ma vedi, ho digiunato, per te, per me,
per una pioggia e per molti baci.
Molti. Molti. Tuo” (4)

È ancora Lei con la sua presa sulla realtà a contenderlo per un po’ alle voci. Lei, l’eterno femminino che veglia sulle valenze plurime e tutte le sintomatologie dei generi nutre. Lei che quelle voci sa e che pure ascolta ma ne è libera, esse non la pretendono, come invece pretendono il poeta. Il poeta che già sa quale termine la contesa abbia: Lei è stanca, Lei può stancarsi e punirlo lasciandolo alle voci e all’interregno che queste gli vegliano nell’occhio, per farsi dire. E il poeta dice tutto, da questo sguardo che più che appartenergli lo appartiene, tutto, fino alla visione di Lei, vera, più vera della realtà e della sua assenza di verità. Ma è marzo. Un mese somigliantissimo alle correnti controverse che attraversano la poesia di Piccoli che è “come se si trattasse ogni volta di un miele sparso dentro cui c’è sempre qualcosa di estremamente tagliente, come delle lamette, delle tagliole, che sono pronte, mentre la dolcezza sembra ammaliarti, a ferirti a colpirti nel profondo, a darti dei fendenti dai quali è impossibile poi guarire” (5) . Tuttavia questo è uno strano giorno in cui le voci oltre che essere dette non vogliono altro e lasciano il poeta tranquillo, credere, senza davvero crederci che il suo digiuno, possa garantirlo incolume dalle virate rapaci che la poesia impone alle sue fattezze.

 

Note

(1) Giuseppe Piccoli, Lettera per una domanda di perdono, Poesia 103, Crocetti Editore, Febbraio 1997 pag.70
(2) Giulio Galetto, Orfeo nella poesia di Piccoli, “Bollettino della Società Letteraria di Verona ”, 1998-1999, pp. 83-86
(3) Giuseppe Piccoli, Lettera per una domanda di perdono, Poesia 103, Crocetti Editore, Febbraio 1997 pag.70-71
(4) Ivi, p.71
(5) Maurizio Cucchi, Per una sistemazione critica di Giuseppe Piccoli, “Bollettino della Società Letteraria di Verona”, 1998-1999, pp.83-86

 

 

Giuseppe Piccoli nacque il 5 aprile 1949 a Verona. Seguì studi classici senza però portarli a termini, dedicandosi giova-nissimo a scrivere poesia, prosa e articoli di critica letteraria per “L’Arena”. Nel settembre del 1981, in seguito a una ricaduta della sua malattia psichica, ferì il padre, che morì dopo pochi giorni, e la madre, che invece si salvò. Venne re-cluso nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia per un pe-riodo di detenzione di dieci anni. In seguito fu trasferito in altri reclusori. L’ultimo che lo ospitò fu quello di Napoli dove, nel febbraio del 1987, si tolse la vita.

 



Viviana Scarinci è nata nel 1973. Ha curato per Apeiron Editori, il libro di memorie collettive L’isola di Kesselring. Ha vinto diversi premi letterari tra cui la sezione Scrivere i Colori del Premio Grinzane Cavour. Le sue poesie sono state pubblicate tra l’altro su Nuovi Argomenti, Atelier, Gradiva, Capoverso, il Segnale, Tratti. Nel Gennaio 2009 è uscito il libro Le intenzioni del baro, poesie 1995-2007. Fa parte della redazione del blog letterario collettivo Viadellebelledonne. Nel giugno 2010 partecipa al numero 86 de Il segnale, percorsi di ricerca letteraria con l’articolo Regole e virtualità. Ha pubblicato con Paolo Fichera l’eBook Dormi come visibile. Suoi scritti sono presenti sui principali blog di letteratura. Gestisce i suoi inediti attraverso il blog http://vivianascarinci.wordpress.com/