Marina Gasparini Lagrange, Aperti dedali

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Aperti dedali

"Labirinto veneziano", di Marina Gasparini Lagrange, si presenta quale intensa scrittura in cui elementi tratti dal mito, nonché dalla storia dell'arte e della letteratura, incontrano propensioni poetiche in grado di metterne in evidenza i profili peculiarmente umani, rendendo il lettore partecipe di processi conoscitivi che non tendono a trarre conclusioni definitive, bensì a descrivere per cerchi concentrici, diffondendo atmosfere, sensazioni, emozioni, immagini.

Il titolo pare davvero appropriato: di labirinto veneziano senza dubbio qui si tratta.

Labirinto geografico, topografico, labirinto del tempo, dello spazio in senso lato, dell'anima?

Di tutto questo assieme.

Il lettore viene coinvolto in una condizione, in un destino dell'essere.

Sorge, allora, il quesito: se tutto è labirinto, nulla lo è?

Sì e no, pare la risposta corretta: non possiamo negare la sua presenza né la sua assenza.

Qualunque oggetto indica ciò che non è, pena non essere tale: distinguere significa identificare in una presenza un'implicita assenza o, meglio, il darsi d'entrambe.

Proprio da questa consapevolezza nasce la facoltà di descrivere la vita.

Descriverla in senso ampio, nei suoi aspetti fisici, anche minimi, nelle sue sensazioni ed emozioni, nelle sue idee, nei suoi pensieri: dedicarsi a descrivere l'esistenza è compito tanto affascinante quanto interminabile.

Autrice e personaggi si trovano assieme, distinti e nello stesso tempo uniti, nel dedalo d'una Venezia che, pur restando ostinatamente tale, è tutto il mondo.

Non sono soltanto casi d'empatia, si tratta, piuttosto, della capacità di lasciarsi chiamare in causa: più che identificarsi con Piranesi, Lotto, Brodskij ed altri, Marina permette agli elementi posti sulla pagina d'interagire il più liberamente possibile, di respirare.

Un respiro non monotono, ma intenso e multiforme, quasi volesse riferire delle differenti particelle d'aria inalate, delle diverse atmosfere in cui alterna le sue fasi, un respiro che, con lo stesso vario altalenante movimento, suggerisce come nessuna storia mai abbia inizio e fine, essendo la vita esposizione all'enigma.

Non è facile adoperare con tanta cura lo strumento linguistico fino a consumarlo e, consumandolo, anziché renderlo innocuo, consentirgli massima espressività.

Massima?

Nemmeno, perché il percorso aperto e circolare non consente l'uso di tale aggettivo nel suo significato più stretto: massima, tuttavia, nel senso che sembra essere stato raggiunto l'obiettivo di dispiegare, al meglio, certe (poetiche) capacità.

Se è vero che chi scrive si racconta soprattutto con le proprie opere, vi sarà un seguito, una prossima prova?

Di fronte ad una "perseveranza" intesa quale "altro modo di rivelarci a noi stessi", credo si possa bene sperare.

Marco Furia

 

(Marina Gasparini Lagrange, "Labirinto veneziano", Moretti & Vitali, 2009)