Giovanni Campi, prosa inedita "Tetr'agone m'usi che musica non m'usa", nota di Mara Cini

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Maurits Cornelis Escher “con elevato virtuosismo tecnico” realizza le sue note illusioni spaziali, Giovanni Campi, almeno nella prima parte di Tetragone m’usi che musica non m’usa propone analoghe illusioni (non compiute illusioni verbali, però): Man mano che varcava la soglia, da cui n’era varcato, non sapeva più dire fosse dentro o fuori, ecc.

Insieme ad Escher arrivano sulla pagina tutti gli altri “indiziati”: Alice nello specchio, Le città invisibili e I destini incrociati, Samuel B. con il suo guscio pieno di vuoto, gli Angeli Sterminatori, la Tempesta, e Allen/Urlo...tutti insieme Padreterno e Figuranti a dire, sopra le righe, una geometrica celeste preghiera senza soluzione di continuità di notte il giorno…un quadro d’insieme ma senza insieme…

 

 

tetr’agone m’usi che musica non m’usa

 

Il Signore era ai quattro lati d’una figura che potremmo definire come un teatro da burattini, ma senza piú burattini né burattinajo, o come uno scacchiere, o scacchiera, ma senza piú pezzi: le torri, cadute, e no, né re né regine, né manco nel c’era una volta; del cavallo nulla, se non la mossa, ma no, nessuna mossa né altro da fare.

Agli angoli, avanti a sé, o dietro di, i pezzi di quella grantorre e di questa, la minuta. Come se la partita finita da sempre non fosse per altro mai stata giocata, erano pezzi del resto delle torri cadute, pezzi fatti a pezzi, rovine. Tra i resti di nulla ne immaginava alcuni come porte. Man mano che varcava la soglia, da cui n’era varcato, non sapeva piú ove fosse: se dentro o fuori. Qualora dentro, gli si diceva d’uscire. Qualora fuori, d’entrare. Talora si pensava dentro e fuori insieme, o fuor di sé e ritornato in sé; talaltra, riuscitone fuori senza per altro riuscire ad alcun ché. C’erano, ora li vedeva, gli occhi volti indietro, avanti, il passato da venire, avvenuto, e cosí il futuro, c’erano, ora li vedeva, altri resti, altre rovine: pezzi di scale, non tutti i gradini, no, solo alcuni, solo parti. Man mano che d’un grado saliva, man mano che d’un grado scendeva, non sapeva piú ove fosse: se sopra o sotto. Qualora sotto, gli si diceva di salire. Qualora sopra, di scendere. Talora si pensava sopra e sotto insieme. Senza soluzione di continuità di notte il giorno del, di giorno la notte del: si destava al sogno d’un quadro d’insieme ma senza insieme, luogo & tempo ora mai comuni, quasi la memoria, non facendosi storia, fosse disfatta in storie senza storia. Nel corpo a corpo d’anime animate in agoni d’agonía, forse già morte, forse mai nate, si destava al destarsi d’esse, anime dal corpus esangue che langue al presente dell’assenza; anime di ricomposte lame che, fredde, fredda d’un colpo d’una e tutte le colpe; animelame che, diacce, diaccia di tutte e una colpa, d’un colpo ferite, d’inferire nel conto alla rovescia: tre, due, uno, zero prima della fine, prima dell’inizio nel diritto del rovescio, nel diritto a uno, due, tre.

L’ultimo desiderio, prima della fine. Prima della fine del desiderio, non desiderare alcunché, che non possa finire, né possa finire di desiderare ancora. Ancora.

L’ultima parola, prima della fine. Prima della fine delle parole, non dire alcunché, che non possa finire, né possa finire di dire ancora. Ancora.

Ancora, prima dell’inizio. Prima dell’inizio del desiderio, non desiderare alcunché, che non possa iniziare, né possa iniziare a finire il desiderio. Prima dell’inizio delle parole, non dire alcunché, che non possa iniziare, né possa iniziare a finire di dire, di nuovo. Di nuovo.

Di nuovo si destò al sogno d’una rivelazione, ma senza averne memoria, se non come d’una profezia da inverarsi ancora o non piú, senza averne percezione, se non come d’un’oscura chiaroveggenza: ai quattro angoli della terra, questo guscio pieno di vuoto, quattro angeli o custodi. Forse, da un lato, gli angeli custodi, uno per ogni torre assegnata non si sa da chi, da custodire, e, dall’altro, gli angeli sterminatori, uno per ogni torre assegnata si sa da chi, da sterminare; forse i custodi della porta cui chiedere d’entrare, cui chiedere d’uscire, forse i custodi della scala, cui chiedere di salire, cui chiedere di scendere. Eventi rilasciavano e venti trattenevano, o, al contrario, il granvento del destino avanti ventava ad essi adesso, o ad uno soltanto; forse l’uno non era affatto uno d’essi, non era uno di nessuno, o sí, era uno di nessuno. Era ora il tempo ch’era stato: una tempesta, tradotta parola tradita dall’accento diviso, acuto senz’acuzie, grave senza gravità, suonosilenzio; una tempesta, tradita parola tradotta dall’accento gravido d’ogni ordine & significato, sí, ma avvolto nella volta del cielo in ogni disordine & gradus ad, in una e piú strofe all’ingiú volte, volte all’insú: una catastrofe, e piú. Nel cielo, la volta e i veli penduli nella volta di bocche spalancate dall’urgenza posteriore all’ultima preghiera erano sono e urlo, da disvelare e rivelare; saranno il nomade nome dell’ade, la monade d’abitare, da cui essere abitati, nella spiega da spiegare, dispiegare, ripiegare, a ché il significato sia solo sfiorato, sia solo tocco e toccato: a ché mani lievi suonino, d’uno strumento fatto di vento, una musica di gratia per ogni disgrazia. Era ora il tempo ch’era stato futuro: una tempesta, detta progresso. Era ora il tempo che sarà passato: una tempesta, detta regresso a infinito. Intanto che nel dolore implacabile ci si senta sentiti e che nel male incurabile ci si sappia saputi: per tutti i popoli oppressi, per tutti i morti, era ora il tempo che sarà per essere. (Pausa).

E che sarà? E che sarà mai? Sarà mai? Sarà ora? (Pausa). Sarà, ora, tempo? (Pausa).

(Tempo).

 

 

Giovanni Campi: suoi testi sono in rete (La dimora del tempo sospeso, Nazione Indiana, La poesia e lo spirito, Carte Sensibili, Poetarum Silva, Versante Ripido, etc.) e in varie antologie; vincitore della settima edizione del premio MAZZACURATI-RUSSO, il suo libro d’esordio è il dialogo "l'irragionevole prova del nove" per i tipi della Smasher Edizioni nella collana "orme di teatro".