Giuseppe Nava, dalla raccolta inedita “Nemontemi”, nota di Giorgio Bonacini

Il filo che lega queste testi in un poemetto che, fin dalle prime parole, evidenzia una sua lenta e dolente osservazione e interrogazione, inizia da una notazione storica: il calendario azteco che chiudeva l’anno con una coda di cinque giorni, detti nemontemi, da cui il titolo dell’opera, che oscuravano e quasi bloccavano la vita e le attività umane fino al nuovo e rassicurante inizio d’anno. Questo è il luogo metaforico, ma concreto e denso di sostanza, in cui l’autore immerge il suo soliloquio: fatto di parole che sembrano un mormorio di precisazioni malinconiche, un percorso ondulante, morbido, una lenta marea dove la tensione di una tristezza chiusa si avverte sia nelle notazioni esteriori sia nei passaggi interni, lì dove la misura del vedere, del pensare e del sentire “vibra e trema a ogni passo”. E scegliere un luogo temporale di sospensione e paura come centro propulsore della propria scrittura è già di per sé una scelta poetica, perché va ad immergersi e alimentarsi nelle passioni umane che faticano ad uscire e si intorbidano, e spingono prima ancora di aver detto ciò che si incaricherà la poesia di dire. Il lavoro della lingua poetica, con le sue proprietà di espansione e compressione, è l’unico in grado di crescere, imprimersi e liberarsi come forma di vita. E lo fa con un andamento continuo, come se scivolasse in un magma, ma senza cercare agganci per fermarsi.

Nel poemetto c’è un tu, c’è un io e c’è un noi, ma si ha la sensazione che questa intersoggettività sia soltanto un’illusione: quella di chi vuole e sa di interloquire con il mondo, ma questo, invece, altro non è se non il riverbero di un vuoto un “immaginarci senza”. Ed è in questa zona ancora indefinita che Giuseppe Nava entra: tra inquietudini che sembrano non avere né principio né fine, ma un incessante movimento centrale: un gorgo in cui i sentimenti, le emozioni, le visioni, le domande e le frasi stesse che scrivono questo affondano, e risalgono senza boccheggiare, come se respirassero anche sotto o non respirassero affatto. Oppure sembrano svolgersi da una matassa di suoni, di voci dove qualcosa si prende e si accoglie, ma anche qualcosa si lascia e si perde.

Qualcosa nel ricordo del perché si è qui: da quale segno, gesto o senso si arriva; “da quale testo mai scritto”, chiede il poema “abbiamo preso le parole” che ci conducono. Un perturbante insaputo avvolge quest’opera; e involge il lettore dentro l’assillo di un’oscurità senza riflesso alcuno; e nello stesso tempo lo coinvolge senza possibilità di sottrarsi. Perché questa poesia non vuole restrizioni intellettive, blocchi concettuali, ma solo pensosità: pulsazioni significanti che, nel fluire dei versi, prendono distanza come “particelle irrimediabili” stelle lontano che pulsano.

Un universo poetico il cui centro irradia le significazioni visive di un corpo di corpi attorcigliati: uno spazio guardato come si guarda un oggetto vivo ma quasi non umano. Infatti, se si osservano le parti che si intrecciano in linee rette o spezzate, in curve ripiegate o stese, il tutto appare percepito con una strana lontananza, taciuta o in atto di estinguersi “a ogni sonno”.

E’ questo che fa il poeta: scopre nell’esistente ordinario un disordine creativo che non combacia e sborda, rimodulando il segno emozionale e conoscitivo. E lo fa con la consapevolezza (a volte inspiegabilmente incosciente) che la frantumazione del visibile e il suo scivolamento in anfratti invisibili, non ancora detti ma temuti, serve a “sorreggere il passo verso il nulla” : dove le cose emergono in forma e senso indistinti. Lì, in quel luogo di timore e in quel tempo di vacuità, Giuseppe Nava trova e ci esorta a trovare la parola giusta: quella che chiama piano e quasi viene inghiottita prima di essere detta, eppure dice e parla “oltre le ombre che noi siamo”.

 

***

se ne va il veleno a poco a poco

da quei cinque giorni innominabili

si sposta l’asse delle cose amate e dà vertigine

per noi che ci vediamo nello specchio che fuma

si raggrumano risposte, si staccano le croste

dalla pelle tatuata, si incide la ferita

e si succhia via il veleno, a poco a poco,

non fa male dici, ma l’anno nuovo

deve ancora incominciare

 

***

cose, mi hai detto, che ho colto tra le spugne del sonno,

cose mai dette, infilate a forza in una ragione,

circoscritte allo schema, ridotte all’etichetta consueta

delle stagioni e le loro promesse, cose, che scivolano via

se l’incoscienza delle forme dona grucce o stampelle

a sorreggere il passo verso il nulla, cose,

che l’inciampo lascia a terra a sanguinare,

e con il sangue disegnarne la memoria che ogni volta

mi scuote la testa in una smorfia, un tic, un no

detto ad alta voce

 

***

abbi cura di cancellare ogni traccia

i nomi le firme i numeri, confondere le prove e i residui

senza spezzare i rami, camminando all’indietro come gli indiani

sugli stessi passi, sulle impronte, fino a sparire

nel folto dell’ombra

 

Giuseppe Nava è nato a Lecco nel 1981 e vive a Trieste. Ha pubblicato Un passo indietro (LietoColle 2009) e Esecuzioni (Edizioni d'If 2013, Premio Mazzacurati-Russo). Tra il 2010 e il 2013 suoi testi sono stati pubblicati sulla rivista «Inpensiero» e, in rete, su Absoluteville, Poetarum Silva, Nazione Indiana. Ha curato (con M. Cohen, V. Cuccaroni, R. Renzi, C. Sinicco) l'antologia di poesia dialettale L’Italia a pezzi (Gwynplaine 2014). È redattore delle riviste «Bollettino ‘900» e «Argo». Dal 2012 collabora all’organizzazione del Trieste International Poetry Slam.