Maurizio Solimine: Ouverture al rancore

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Nota critica di Ranieri Teti

 

In poesia può accadere una perfetta alchimia: che il senso di un’opera si rifletta pienamente nella sua forma. E’ quanto avviene in Ouverture al rancore di Maurizio Solimine.

Sin dal titolo l’autore coniuga due forze che convivono in contrasto: il momento poetico dell’ouverture, con i suoi rimandi musicali, e quello più strettamente psicologico del rancore. I rimandi musicali sono inizialmente evidenziati da una forma molto sonora. La tensione è resa da una scrittura che sembra metrica e  che continuamente spiazza il suo stesso ordinamento con i leggeri, quasi impercettibili, spostamenti sillabici di alcune rime, che immettono nel testo un effetto noise: “fresca” e “fosca”, “imbriglia” e “spoglia”, “confini” e “sublimi” per citarne alcuni.

Queste rime volutamente imperfette si succedono a rime invece esatte. A rendere ancora più forte la tensione intervengono continui cambi di ritmo. 

Alcuni versi non hanno contraltare rimato, rimangono sospesi sul vuoto. Soprattutto nella prima parte, dove la struttura metrica è più compatta, Solimine talvolta rimane esposto, e ci sospende, nei luoghi più impervi: succede “sul greto della strada”, che è “peste di passaggi”, succede “all’ombra della luce”.   

La struttura di questo poemetto è funzionale allo svolgersi del testo, che si dipana in un dolente viaggio attraverso un’Italia “superba e latente”: “Qui (...) / giunge debole l’eco, quasi pesto / e arcano, d’un remoto richiamo / la cui voce non è che stentoreo / silenzio”. In questo percorso si incontrano la poetica dei luoghi, con la loro antica bellezza, e il rimando a una possibile filosofia civile che già racchiude il senso di nostalgia per un’alternativa sfuggita: “rovine macilente / sono la mia ricchezza: dove men rado / il mondo non mi è che vivo riflesso / d’un’elegia perduta”.

Riuscirà la poesia a restituire il senso di un’elegia perduta nei luoghi di “questa terra di livore”, nelle aporie della storia e della politica?

Rifiutando l’happy end, la poesia non chiuderà il cerchio né sarà consolatoria: “Ho trasformato come un ossesso / questa lieve, piccola sfumatura / in una tela da buttare, in un’altra / patetica mia ouverture al rancore”.


 

Testi poetici

 

*

Accorata e spersa in questa fresca
giornata d’agosto, più imbelle
ai ruvidi lineamenti, alla fosca

luce che mutila il senso, il ribelle
clamore sopito nell’aria assente
della festa, della domenicale

allegria – la traccia della vita mente
dove più indietro il corso proietta.
E dalla vita svetta dolcemente

l’imberbe testimonianza infetta
che essa, all’ombra della sua luce,
muoia lentamente. Sospetta

d’eresia, o di sibilline, mordaci
impressioni, questa mia aria di famiglia
così mesta, cos’ vicina alle audaci

fenditure, all’ira fonda che imbriglia
la gola a un Munch, o più fonda
del terreo dorare dell’estate, spoglia

di orpelli e spezzati gore di gronda,
questa mia ouverture al rancore
sprofonda in sé, nell’immonda

mondità delle cose. Albicatura
di un’esistenza oltremodo violenta,
pure vedo in queste livide more

sparute le mie passioni lente
rovesciarsi sul greto della strada
peste di passaggi; rovine macilente

sono la mia ricchezza: dove men rado
il mondo non mi è che vivo riflesso
d’un’elegia perduta, come rado

lampeggiare che più chiaramente
s’oscura e oscurando muta.

 

Maurizio Solimine (1985) vive a Roma dove è laureando in Filosofia. Già menzionato al premio Lorenzo Montano, è inedito in volume.