Ciò che resta del corpo

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La stoffa, carica di segni e di pigmenti, pervinca e arancio disseminati di frecce e cerchi, lascia scoperto il corpo in un’evidenza priva di  enigmi. Una ridda di segni circolari ancora si muove sul pube, all’incrocio tra le gambe che a malapena serrano il vuoto che vi si insinua.

Tronco che si torce, accenno di danza o di fuga che resta indeterminato, ma ancora individuabili sono i segni che lo compongono: un triangolo fra le gambe, un cerchietto per l’ombelico e per il capezzolo, una linea per la verticale di riferimento rispetto a cui il busto s’inclina e le linee con andamento ovale che bloccano la figura in una forma chiusa: da piedistallo.

Si potrebbe immaginarla inginocchiata accanto al mio corpo o sulla rena. Quel che di lei resta: appena un’onda che si ripete nei seni e che più fuggevole sovrasta l’ombelico. Il busto  sembra aperto anche inferiormente: le gambe, non bloccate da alcuna linea, appaiono svincolate, pronte a svanire. Lo sguardo è attratto dal centro, dove non c’è nessun segno.

Unico dato: la mancanza della testa  e delle mani e dei piedi. Tutta la figura si svolge intorno al fulcro centrale che inchioda il corpo alla carta e da lì la linea si avventura ai bordi del foglio sfinendosi, prima ancora di toccarlo.

E’ la parodia di un tronco. E’ l’immagine deformata dal ricordo, dalle figure di te che si sovrappongono nell’unico tempo che mi resta: quello perenne della tua forma.

E’ come volutamente ti deformo, ti tiro, ti slabbro, ti riduco a lamina, a linea nera che s’avvolge nella mente.

Questo blocco intorno a cui si può solo girare, grava. Non è possibile sollevarti, solo guardarti. Pietra che dice com’eri. Il vento solleva la stoffa che  taglia l’immagine in diagonale.

Il tuo corpo reclama la fine. Dice che sei una formella, da riempire con la sabbia o col gesso, che potresti essere di bronzo o di pietra nera, ma che sei pronta a defluire dal canale di scolo, dall’imbuto fra le pareti tornite, dalla via aperta fra le gambe.