Gio Ferri, Varianti, Un saggio interpretativo

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Prima di riaffrontare, seppure in un breve discorso su alcuni testi recenti, l’affascinante  problema delle varianti, credo che possa essere utile concordare una differenza terminologica fra variante, modifica d’autore e variazione sul tema.

L’idea classica di variante si perfeziona nel tempo (in particolare nei tempi moderni) in quel procedimento filologico-testuale di cui sono stati testimoni critici e storici diversi studiosi dell’ultimo secolo: vanno ricordati fra i maggiori Gianfranco Contini e Maria Corti. La loro ricerca affonda nel ricchissimo humus in particolare della poesia (e della letteratura in generale) che va dagli antichi più antichi (per i quali prima di parlare di studio delle varianti si deve prestare attenzione alle ricostruzioni filologiche), agli autori più moderni fino alla metà del secondo Novecento. Questo esteso periodo storico è caratterizzato dalla scrittura manuale, dal lavoro di interpretazione e copiatura degli amanuensi, e ancora dalla stampa a caratteri mobili. Le varianti, quindi, per lo più, riguardano gli errori di scrittura, di stampa e di trascrizione. Il più recente straordinario lavoro di ricostruzione per questi generi di varianti è l’ultima (2001) edizione critica della “Dantis Alagherii Commedia” (di cui ad oggi non si possiede l’autografo) sulla quale per oltre vent’anni, appoggiandosi a una bibliografia immensa e sovente inedita, ha operato Federico Sanguineti. Chi abbia voglia di confrontare con questa alcune precedenti famose edizioni (Barbi-Scartazzini-Vandelli, Petrocchi), solamente leggendo il canto primo dell’Inferno troverà non meno di una trentina di varianti, alcune delle quali sono determinanti per la verifica testuale fino a modificare talora le stesse strutture metriche dei versi e delle terzine.

Le varianti in corso d’opera (che riguardano in particolare la poesia degli ultimi due secoli) possono definirsi modifiche d’autore la cui ricerca si riferisce essenzialmente agli autografi (Maria Corti fondò per l’appunto con Cesare Segre la rivista “Autografo”, e l’archivio d’autografi della Università di Pavia). Questo materiale suggerisce una certa perplessità di giudizio: per quale motivo l’autore – che non raramente addirittura ripudia certe sue opere prime e no – dopo la pubblicazione a stampa, conserva l’autografo variamente da lui corretto? Vuol dare contezza della progressione del suo lavoro creativo?
Sta di fatto che queste abitudini, o vezzi autoreferenziali, sono destinate a scomparire (salvo che non si voglia esplicitamente dar conto di un progetto compositivo, come pare che avvenga per gli autori qui pubblicati). Ciò a causa della diffusione ormai globale del computer. Le correzioni e le modifiche ‘spontanee’ vengono immediatamente cancellate e sostituite. Pian piano nulla rimarrà di quelle belle pagine pluricolorate, scarabocchiate, tormentate e sovente illeggibili (una sorta di poesia visiva involontaria!) che risalgono alla conservazione degli autografi.

Di qui perciò la constatazione di un diverso genere di variante, che può definirsi variazione sul tema. Quando l’autore ritenga l’ipotesi utile all’arricchimento della propria espressività.

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Queste, in parte risapute, considerazioni non sono affatto estranee alla lettura dei testi di quattro autori qui pubblicati. Credo si possa affermare che Pierno, Guglielmin, De Francesco producano essenzialmente delle variazioni sul tema. Diverso, come vedremo, il discorso per la Cini.
Le poesie dei primi tre poeti vengono tipograficamente presentate in una o più variazioni come prodotti finiti. A quale processo preconcettuale e scrittorio si possa ricorrere per capire cosa è accaduto prima della prima versione non è dato sapere. Tutto è rimasto nella penna (se gli autori hanno scritto inizialmente, magari per appunti, con una penna), oppure tutto è passato dalla mente al computer, che brutalmente può aver nascosto e cancellato i possibili, probabili diversi passaggi.

Comunque sia anche di queste variazioni si può prendere atto con estremo interesse insieme psicologico e testuale, per cogliere un processo creativo estremamente aperto: del quale sovente non si possono notificare particolari preferenze di passaggi. Voglio ribadire che, a mio avviso, ci si trova di fronte ad alcuni prodotti in sostanza finiti. Come avviene per le variazioni musicali su di un tema (per esempio dal pianoforte alla orchestrazione, alla suite), o per le opere artistiche seriali (si pensi per esempio alle innumerevoli stesure di Picasso per il tema Le bambine e le colombe da Velasquez, e ai cavalli e cavalieri di Marini).

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Rosa Pierno  in Ciò che resta del corpo punta indubbiamente, fra la prima e la seconda versione, ad una più sintetica, stringente, secca testualità, sebbene la prima non lamenti particolari inestetismi rispetto alla seconda:
in ... all’incrocio fra le gambe che a malapena serrano il vuoto…si modifica una presa d’atto spaziale quando si toglie all’incrocio fra le gambe e meno si tergiversa con le gambe a malapena serrano il vuoto.
Ovviamente, per la Pierno e per gli altri, qui cito solamente qualche passo, lasciando al lettore di districarsi fra i testi diversificati.
Notevole è l’eliminazione di questo blocco intorno a cui si può solo girare, grave. Il blocco corporeo si alleggerisce, ancorché sia sempre pietra. Certo c’è  qualcosa di amorevole oltre la gravità: come a voler attenuare una pesantezza, una sofferenza, e cogliere infine ciò che resta del corpo.
Significativo dal punto di vista metrico-ritmico è quel dove non c’è nessun segno rispetto a dove non c’è alcun segno. Non si tratta solamente di una correzione grammaticale (per uso, non essenziale) della doppia negazione. In effetti si passa da un ottonario a un settenario e si raffina la ritmicità, eliminando una difficile (anche alla pronuncia) allitterazione, qual è nessun segno.

Stefano Guglielmin presenta due testi in forma variante e in forma definitiva, e una sequenza di varianti senza forma definitiva.
Leggiamo a titolo d’esempio Come a beato confine. Innanzitutto si pone una domanda. Si inizia con una variante: variante di che? Di un’altra prova o più prove che rimangono a noi sconosciute? Comunque il pre-testo, pure occultato è presumibilmente comune: il coinvolgimento metabolico dell’Io nell’attività ora drammatica della storia collettiva e individuale (Io…Kosovo… arto malato…), ora pacificatrice della natura (Io… seme… parola…prato…). In ogni caso i due testi appaiono finiti (a prescindere dall’intenzione dell’autore) e quindi direi, come per gli altri successivi, di variazioni sul tema. Un tema, o temi, nelle poesie meno sintetiche (La distanza immedicata) di vaste e complesse variazioni interpretative, dall’orchestrazione assai articolata. Su di un flusso verbale intenso si esercita, tuttavia per lo più, l’arte del cavare.

Alessandro De Francesco. Fra i diversi testi mi sembrano particolarmente interessanti quelle variazioni sul tema (ancora così le definirei) de la luce pomeridiana. Si tratta di quattro stesure in diverse epoche, dal 1999 al 2006: la circostanza temporale potrebbe denotare una lenta modificazione dello stile e della poetica formale dell’intero lavoro dell’autore. Verso una ricerca minimalista. Ancora una volta leggiamo poesie in gran parte compiute su di un unico pre-testo che riferirei (classicamente) alle visioni del demone del meriggio. Entro l’estraniante modificazione onirica delle immagini. Il demone giunge nell’aria immobile, approfittando del rilassamento nel momento del riposo pomeridiano.
Forse ci  si può autorizzare una analogia musicale, precisamente sull’esperienza della Scuola di Vienna. Dall’andante descrittivo e decadente (anche dialogico secondo le strutture del poema sinfonico) del primo Arnold Schönberg, all’estrema sintesi ritmica di Anton Webern. Particolarmente indicativa è la variazione fra terza e quarta stesura dell’ultimo verso: nella terza porzioni di nulla, nella definitiva porzioni di vuoto. Indubbiamente c’è grande differenza fra nulla e vuoto: il nulla chiude a ogni ulteriore sviluppo. Il vuoto si offre invece al riempimento. Quel vuoto – ultimo ripensamento – è forse colmo, in assenza, della pienezza espressa dall’accumulo inconscio della prima stesura? Come in Webern la sintesi occulta un consistente processo pregresso, cosicché quasi una sola nota possa contenere tutta la possibile musicalità?

Mara Cini con le sue due brevi poesie ci riporta invece alle modifiche d’autore. Ciò in quanto – secondo tradizione – ci fa scoprire anche l’autografo, donandoci il piacere visivo di quella metamorfosi della scrittura che rivela anche il lavorìo della mano, del corpo. Piacere visivo che passa dalla contorsione del segno e del senso alla purezza della pagina stampata. Come dal caos si giungesse alla chiarità della lapidaria parola-luce, entro l’infinitezza del bianco. Apprendiamo in effetti di alcune dialettiche contrapposizioni:
una linea scura… a  Monte Sole…;
in una fiacca luce…e il buio…
E tutto espresso in un ritmo che riporta alla danza della mano, della penna nell’autografo. Graficamente tuttavia la danza passa dal dionisiaco della calligrafia, all’apollineo nella stampa.
Si osserva, nel mistero di una scomparsa nella versione a stampa, il titolo dell’autografo Forma temporale al naturale. Forse l’idea di una metamorfosi che va dalla sciolta naturalità di due tumuli d’erica (un tumulo d’erica nella prima spontanea stesura) alla paratassi estatica di un riccio di cancello / una vespa bambina (ricciolo abitato da vespe bambine nell’autografo).
La poesia  dall’incipit s’allunga si svolge, fra autografo e stampa, in un paio di tentativi, una forma abbozzata e, infine, una stesura definitiva.

Aprile 2007

Gio Ferri è poeta, poeta visivo, grafico, critico d’arte e letteratura.
Fondatore nel 1983 e condirettore, con Gilberto Finzi e Giuliano Gramigna, della rivista “Testuale, critica della poesia contemporanea”. Fra le sue opere poetiche più recenti, per Anterem Edizioni, il primo e il secondo libro de L’assassinio del poeta.