Elena Corsino, Nuove poesie

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I

Se m’attendi su un ponte,
vedrai, verrò per mare.
Imboccato il mio fiume
mi farò argentea d’alba orientale,
e d’acqua dolce pesce
che risale onnipotente
controcorrente,
guizzo gaio serpente – alla sua sorgente.

                                   (da Le pietre nude, 2005)

* * *

(variante)
                                  
Se m’attendi su un ponte,
mi farò acqua pura:
e muterò la mia natura,
da corpo bianco-marmo
                        sgorgherei
da abissi,
            da anfratti bui di labirinti
umani, affiorerei
                       azzurrerei.
In luce nuova
                        mi tufferei.

II

E’ lastricata e sdrucciola la mia
non retta via di fragili orizzonti
sui fianchi di rovine umide di terra,
e muri – e scarti ricoperti di muschi
verdescuri, lungo questo risucchio
dell’aria, – mantra d’assenza e d’oblio.
Io vengo all’accorrere del cielo disteso,
all’azzurro in grembo alle colline.
Così accade che (schivato appena
il ciglio) le cose qui risuonino
                      del loro sordo canto.

                                               * * *

(variante)

E’ lastricata e sdrucciola la mia
non retta via d’orizzonti incerti
sui fianchi di rovine umide e terra,
e case – e scarti ricoperti di muschi
verdescuri, per questo risucchio
dell’aria, – mantra d’assenza e d’oblio.
Io vengo al giungere del cielo disteso,
dell’azzurro in grembo alle colline.
Così accade che (schivato appena
il ciglio) le cose qui risuonino
                       del loro sordo canto.

III

E’ pianto tutto il nostro azzurro.
Solo il bianco agli occhi rimane
come la neve, dove affonda –
il passo, che l’occhio attende lieve.

Non sappiamo più dire: l’occhio
che vede guardato – dal confine,
rinnega, richiama, abiura – ama
mentre scende nel marmo a spirale –

nel vuoto frammento di luce,
            – fin troppo freddo.

* * *

(variante)

Abbiamo pianto tutto il nostro azzurro.
Solo il bianco agli occhi rimane
come la neve, dove affonda –
il passo, che l’occhio attende lieve.

Non sappiamo più dire l’occhio,
guardare profondo – dal confine,
che rinnega e richiama, abiura, ama
scendendo per il marmo a spirale –
            nel vuoto frammento di luce,
                                oramai freddo.

IV

D’orbaco Dafne

Sai che qui non voglio diventare pietra –
sul talamo nuziale del regno del corpo,
di cui conosco appena l’ordine dei sensi.
So d’altre membra io: di boschi luminosi
e spinosi sottoboschi  – di frecce e d’archi,
del sangue che lacera la belva e vive dentro
la terra, nel suo ventre – purissimo.
Già gli occhi ho di zolle colmi
                             e dell’urlo della fuga.
Ma se alle punte spuntassero radici, i fianchi
di cerchi si cingessero, in corteccia latterina
mutasse il tempo e lungo rami d’orbaco
il volto s’annodasse in nocchi e gemme,
e su foglie cembaline suonasse il vento,
come forte sarei  e ricolma di bellezza
così erta e china al cielo.
Amore mi trattiene,
                              o forse un dio?
Si dissolva la mia sembianza, rigoglisca
e muoia il corpo mio, se l’anima scende
e adempie il gaudio dell’immensità
                                   della sua natura

D’orbaco Dafne
(variante)

Sai che non voglio, padre, diventare pietra
sul talamo nuziale di codesto regno del corpo,
di cui conosco appena l’ordine dei sensi.
So d’altre membra io: di boschi luminosi
e sottoboschi tumultuosi – di frecce e d’archi
del sangue che lacera la belva e vive dentro
la terra, nel ventre suo – purissimo.
Già gli occhi ho di terra colmi
                       e dell’urlo della fuga.
Ma se alle punte spuntassero radici
e s’annodasse il volto in rami e gemme,
ed oltre suonassero le foglie cembaline,
di lamine sottili i fianchi si cingessero
e in corteccia latterina mutasse il tempo,
come forte sarei e ricolma di bellezza,
così erta e china al cielo.
Amore mi trattiene,
                       o forse un dio?
Si dissolva ora la mia sembianza,
rigoglisca e muoia il corpo mio
se l’anima scende e adempie
l’illegittimo desìo della natura.

Elena Corsino si occupa di traduzione letteraria e dell’insegnamento dell’italiano come lingua straniera. Ha tradotto opere di Carroll, Koval’ e Cvetaeva. Ha pubblicato Marina Cvetaeva: la prosa diaristica degli anni 1917-1919 (2001) e, in poesia, Le pietre nude (2005). Sue traduzioni in “Anterem” 69 e 72.