Enzo Campi, dalla raccolta inedita “L’inarrivabile mosaico”, nota di Giorgio Bonacini

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In ogni libro c’è una zona di oscurità, uno spessore d’ombra

che non si sa valutare e che il lettore scopre a poco a poco.

Ne è irritato, ma sente chiaramente che in questo sta il libro

reale, intorno a cui si organizzano le pagine che legge.

(Edmond Jabés)

 

Scrivere un testo poetico a partire a una parola altra; proseguire la scrittura come fonte di formazione e deformazione di un nuovo atto significante; addentrarsi nel libro primigenio e riportarne a sé la metamorfosi compiuta di una nuova sostanza. Sebbene la scrittura poetica non abbia luoghi privilegiati di nascita, ma tutto e tutti, potenzialmente, possano realizzare – con elaborazioni, furti, svuotamenti, ricostruzioni e ogni altro paradigma selettivo – le potenzialità illimitate di questo dire, non c’è dubbio che il gesto comporti una dose di azzardo non comune. Se poi l’autore di riferimento è uno scrittore così fortemente aperto e interrogante come Edmond Jabès, che a partire dalla parola, attraverso la lingua, costruisce il testo arrivando al libro, come conglomerato ampio e stringente dell’impresa umana più audace, allora non si può non restare piacevolmente meravigliati. Ma Enzo Campi è poeta di solido pensiero e di progettualità linguistica costantemente tesa alla sperimentazione e ricerca di significati inesausti, quindi l’opera di Jabés è un approdo, per certi aspetti gravoso, ma ricco di sviluppi e diramazioni, e sentito necessario per le sue esplorazioni poetiche.

I libri di Edmond Jabés sono opere di profonda sapienza evocativa, dove la scrittura ha il suo senso iniziale nel vocabolo che, generoso e inesorabile, conduce il pensiero finale verso il libro: luogo aperto di vortici abissali; ma anche spazio dove inizio e fine, parola e cosa, nel fluttuante movimento della scrittura, altro non sono che spostamenti percettivi, posizioni concettuali o prospettiche che interagiscono e interscambiano se stessi, lì dove chi scrive deve necessariamente provare a superare i limiti, per far sì che il principio diventi anteriore e la fine divenga apertura. E in tutto ciò, lasciarsi scrivere o respingere o porsi in ascolto nell’inquietudine di una lingua.

Un’opera, dunque, che per essere accolta nella sua pienezza deve trovare una totale disponibilità nell’accostarsi alla domanda, prolungandosi in essa ma senza affondare, allontanando così da sé le rigidità della risposta. Perché se è vero che la parola può far luce, spesso è invece il silenzio a non oscurare. Nel libro (e allo stesso modo in noi, nella nostra solitudine), dice Jabés, la voce sta alla scrittura come il dire sta al testo, e tutto si intreccia e si apre continuamente, e non c’è spazio, nell’opera autentica, per chiuse definizioni. Enzo Campi, di tutto questo ben cosciente, procede per scelta esemplare dal corpus dei libri di Jabés, e sceglie un’opera apparentemente esigua, ma in realtà fulcro centrale di sintesi di un pensiero, di una scrittura e di narrazione poetica. Per dirla con Roland Barthes, estrae la parola infinitamente vasta che giunge a lui e ne fa la spinta propulsiva per la formazione e lo sviluppo del suo inarrivabile mosaico.

L’opera è Récit (accompagnato dalla Lettera a M.C), racconto poetico, evocazione immaginante dove le parole sembrano germogliare in chi parla. In uno spazio senza luogo chiamato isola, metafora pensante di una solitudine esistenziale (“gravida di fonemi impronunciabili”, ci dice Campi), Il e Ile, i pre-iniziali in questo esilio naturale, si volgono ad accogliere il dire mancante che sta nella lingua di una poesia che è sempre voce anteriore di una parola indecidibile. Parola precisa, però, nel suo imprimere il segno della condivisione e del rimescolamento di ciò che è l’isola e di ciò che nell’isola sta. In questo senso la scrittura ulteriore di questa raccolta poetica, si determina forse a partire dal rumore che l’onda produce insistentemente contro l’isola.

È il graffio della scrittura sulla pagina, il gesto “sovversivo” che risuona tra un vuoto e l’altro; con la leggerezza che il silenzio trasporta in sonorità foniche e grafiche; ma anche la fisicità dei sensi irriverenti che, in queste pagine fanno dire a Il: “il tuo corpo è una mappa./Da poro a poro le linee lungo le quali transitare e in cui transitarsi”. E fanno rispondere a Ile: ”il tuo corpo è un libro di carne./Mi cibo di te leggendoti.”. E tutto il poema è attraversato dal monologo dialogante che l’isola ospita. Parlanti che depositano concatenazioni vocali, sillabe come filamenti fluidi, pensieri contratti o dilatati dal respiro, dove “nessuna virgola sopravvive/alla spaziatura della pausa/che annuncia l’intervallo”. Ma anche luogo che isola nei granelli di sabbia, nei chicchi di sale, e dentro di loro brulica, lasciando o concedendo voce all’onda, che con il suo “vasto rumore indocile”, dice Jabés, dà voce alla sostanza fonica che sorregge il mosaico di questa poesia. Una friabilità espansiva che muove nel fruscio intimo del pensiero e cresce nel brusio interiore della lingua. Eppure, ad un certo punto, lo stesso Campi ci avvisa che “...l’ingrato compito dei viventi/ è quello di assecondare il flusso delle/parole che precipitano come foglie/secche...”, quindi quasi un’apoptosi naturale del dire, verso la morte dei suoni significanti. Ebbene, se così è, perché in questa opera invece, l’autore, porta la poesia da una vita (Jabés) a un’altra (Campi)? Con quale fiducia nella voce detta? Nella parola scritta? Forse una risposta sta nel vocabolo “assecondare”: non come cedimento passivo a un destino ineluttabile, bensì nel senso di seguire un movimento, accompagnandolo anche là, in sentieri possibili non percorsi. Dunque non un’opera di specularità mimetica; ma nemmeno una scrittura apocrifa, come avrebbe potuto essere: bensì un dire ulteriore che prende avvio dalla vicinanza con l’autore di riferimento; dal desiderio di introiettare il suo dire pensante; dal piacere intellettivo che la metaletterarietà produce. Il tutto sempre alla ricerca, non di un astratto esercizio, ma di quella parola che la poesia rende tangibile, pur nella costante ondulazione dei sensi che si rendono inafferrabili. Perciò bisogna dimenticare il testo di riferimento, che pure ha la sua presenza, e partire da un nuovo oblio. Perché se è vero, come scrive Jabés che “il senso delle parole è quello della loro avventura, allora Enzo Campi ha sperimentato proprio questo. E l’avventura lo ha portato oltre l’origine, verso la pensosità di altri libri – delle descrizioni, dei flussi, delle interruzioni, delle cancellazioni – dalle cui frasi, all’orizzonte o tra i margini della pagina-isola, da Il e Ile prendono vita Ilio e Ilèa. Lei, selva naturale, lui il sostegno. Capaci di sovvertire lo sguardo sulla realtà per regalare “un’immagine rivelatrice”: il principio poetico vero e reale che ricompone il mosaico attraverso figure rovesciate.

 

Nel frattempo, essendo risultata vincitrice del 31° “Montano”, la raccolta di Enzo Campi è stata pubblicata da Anterem Edizioni, come prevede il bando. Per la lettura di alcuni testi: /linarrivabile_mosaico_di_enzo_campi


Enzo Campi è nato a Caserta nel 1961. Vive e lavora a Reggio Emilia dal 1990.
Autore e regista teatrale con le compagnie Myosotis e Metateatro dal 1982 al 1990. Videomaker indipendente, ha realizzato svariati cortometraggi e un lungometraggio: Un Amleto in più. Suoi scritti letterari e critici sono reperibili in rete su svariati siti e blog di scrittura, su riviste e antologie. Ha curato numerose prefazioni e note in volumi di poesia. Ha pubblicato Donne - (don)o e (ne)mesi (Genova, 2007), Gesti d’aria e incombenze di luce (Genova, 2008), L’inestinguibile lucore dell’ombra (Parma, 2009), Ipotesi Corpo (Messina, 2010), Dei malnati fiori (Messina, 2011), Ligature (Sondrio, 2013), Il Verbaio (Milano – Sasso Marconi, 2014), Phénoménologie (Bologna, 2015), ex tra sistole (Milano, 2017). Principali curatele Poetarum Silva (Parma, 2010), Parabol(ich)e dell’ultimo giorno – Per Emilio Villa (Milano – Sasso Marconi, 2013), Pasolini, la diversità consapevole (Milano, 2015). Ha diretto, per Smasher Edizioni, la collana di letteratura contemporanea Ulteriora Mirari e coordinato le prime due edizioni dell’omonimo Premio Letterario. È stato ideatore e curatore del progetto di aggregazione letteraria “Letteratura Necessaria”. È direttore artistico del Festival “Bologna in Lettere”.