Ettore Fobo, una prosa inedita, “Fetus la maschera”, nota di Davide Campi

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“…e maschera è ciò che dà la visuale sul mondo, su sè stessi, il proprio occhio profondo”.

Ettore Fobo definisce la maschera come il punto, ma soprattutto come atto,

in parte volontario, di congiunzione fra il sé e l’altro, fra il sé e il mondo.

Nella sua parte volontaria, la maschera equilibra il bisogno di riconoscersi in strutture razionali,

complete e moralmente accettabili con la sua tendenza a riconoscere e normalizzare il caos, il disordine,

la mancanza di un centro che caratterizza sia l’espressione concitata del proprio essere individuale,

sia la valanga dei segnali provenienti dal mondo.

Qui l’autore porta alla luce la doppia vita della maschera, che interviene deformando in modo non lineare,

in misura variabile, con esiti incontrollabili, sia l’espressione del sé verso l‘esterno, sia tutta la percezione dell’altro da sé.

Parallelamente il testo si piega, si contrae, si frattura e si ricompone, seguendo le tracce di questa deformazione.

Fobo utilizza una lingua di silenzi e improvvise e quasi ridondanti accelerazioni, dove convivono brevi atti dal respiro poetico,

narrazioni stupefatte di eccessi percettivi, spunti filosofici e impietose fotografie di qualche dimesso brano di realtà.

Così la maschera con le sue visuali/visioni diventa punto d’osservazione privilegiato, naturalmente autonomo.


 

Fetus la maschera

 

I

In fondo è sempre una questione di codice, laddove per codice io intendo la maschera e maschera è ciò che dà la visuale sul mondo, su sé stessi, il proprio occhio profondo. Ho detto visuale, ma avrei dovuto scrivere visione. Come il poeta di haiku che si sogna farfalla, e dice:

Ma sempre incombe sulle nostre farfalle filo spinato elettrificato.”

E

Ho visto una rondine dibattersi fra i rovi straziata, nell’indifferenza cieca della strada.”

 

II

Questa è realtà, la struttura delle cose, noi come cani di paglia gettati nel fuoco, alla fine di una cerimonia in cui ci sentivamo sacri.

È la dispersione il segreto della struttura, una struttura esiste per disperdersi, vale a dire: tutto ciò che è cristallizzato si rompe. Il codice no, il codice-maschera è già un’interazione fra sé e l’altro.

Ma quando dico struttura, dico bramosia dell’unità, quando dico maschera, dico che la miriade degli esseri è una mia sintesi ipotetica, amo il caos in ogni sua non forma. Non possono vietarmi di essere anche il negativo di me stesso.

Io, l’altro ... la maschera è il punto di congiunzione, tutte le galassie occhieggiano con la loro meravigliosa mancanza d’unità, di centro.

Come il poeta beat che disperde il suo fiato nel vento, che urla su tutti i tetti: “Catastrofica è la notte ma io grido la mia felicità conto un cielo divino troppo sprofondato e m’inchino al ghigno strafottente del sassofono”. Ha indossato la maschera del cherubino angelico, perché le sue voglie erano troppo demoniache: dicono che così le abbia placate.

 

III

Tutta la carne sigillata in un’epopea di facce pitturate, danze dissennate per via dell’oppio,”voglio vomitare“ gridato alla mattina in faccia alla metropolitana ”Benvenuti in Patologia” e poi pensare che tutto sommato sottoterra sia proprio da formichine demoniache. Si rimanda la realtà a data da destinarsi, ma questo non è un sogno, sognare è da stupidi, questa è la nostra primitiva destrutturazione, articolata in paesaggio interiore in cui specchiarsi. È l’eco della parola oblio, che tu cerchi? Per indossare facce più definitive, immateriali, come tutto ciò che è stato Feto.

Privo di volto, privo di essere, senza sostanza, fuggevole e fuori dal tempo, in una parola, eterno.

Ecco l’ultima maschera, l’atman, il sé atomico, il multi verso e l’anello degli anelli. L’innocenza del silenzio e del divenire. Domani potrebbe essere già il sogno di un’altra maschera, indossare l’altro, il dio, l’alieno, il lontanissimo dentro lo stellato.

Ma poi torna la realtà, con il suo grugno di Arimane, con la sua strutturazione sociale, gabbia della Verità, volto nudo al sole senza amore. Allora fingo di essere un serpente per sgusciare oltre tutte le sue classificazioni. È come non fossi nato, un’ipotesi di materia pulsante soltanto e allora anche la morte è una finzione.

Io sono qui, se perdessi le maschere, questa nozione mi ucciderebbe, ciò che ho creato qualcuno lo chiama me stesso. Io non posso che vedermi traslato, nell’antichità dello specchio.

 


Ettore Fobo è nato a Milano nel 1976. Ha pubblicato tre libri di poesia con Kipple Officina Libraria: “La Maya dei notturni “(2006), “Sotto una luna in polvere” (2010), “Dia rio di Casoli” (2015). Alcune sue poesie sono apparse in diverse ant ologie fra le quali “SuperNeX T” (Kipple Officina Lib raria, 2011). Dal 2008 gestisce un blog di letteratura, “Strani giorni “(www.ettorefobo.it). Collabora con la rivista multilingue “Orizont literar co ntemporan” e con il portale di critica letteraria e dello spettacolo “Lankenauta”. Una sua silloge, “Musiche per l’oblio”, è stata tradotta in romeno, in francese e in inglese.