Verità (s)coperta

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«Solo i più superficiali non giudicano dalle apparenze. È una lezione che ho appreso dopo lungo tempo di osservazione del genere umano. E ora che sono vecchia, ho capito che stoltamente, mio caro Arthur, tende a razionalizzare tutto; ascolta tua madre, figliolo! Quel tuo amico, con quel nome lunghissimo, il tedesco... Giorgio Guglielmo Federico Hegel! Quello coi superpoteri filosofici! O quello lì, il francese... quello di tanti anni fa, Renato ... di Carta?»

Arthur la guardò con fare annoiato, sospirò e la corresse con aria di sufficienza: «Cartesio, mamma!»

«Oh, certo! Beh, insomma, guarda loro! Si sono illusi di poter comprendere la realtà! Hanno preso e categorizzato ogni singolo aspetto del reale, ma, dimmi, si può?! Non sai che è una follia tentare di capirla, la realtà? E quell'altro, il Ghepardo, o come diavolo si chiama, l'italiano...?»

Il giovane, di nome Arthur Schopenhauer, fissò ancora una volta la madre con uno sguardo annoiato. «Suvvia, mamma, quando ti ricorderai i nomi? Si chiama Leopardi, per Bacco!» «Ecco, la Natura è matrigna? Sì! Io, invece, sono tua madre, e ti dico: ascoltami! Non cercare di metterti in rapporto con lei, non sfidarla, perché è inutile! Come con quella ragazza che hai conosciuto... Lasciala perdere; può solo far perdere te!»

Arthur alzò gli occhi al cielo. «E poi,» soggiunse, «guarda quello stolto di tuo padre, lui non si ricorda mai nulla!»

Fece una pausa, alzò lo sguardo e, come se avesse avuto una visione, pensierosa ed esitante, sussurrò: «Eppure l'ho sposato...»

Il giovane, da poco avviato allo studio della filosofia, sbuffò: sua madre era davvero testarda e si ostinava su questioni più grandi di lei!

Spesso, nel salotto di casa sua si svolgevano incontri con eminenti filosofi e pensatori venuti da lontano. Arthur, da bambino, si divertiva a stare a sentire di nascosto, da dietro la tenda di raso rosso che separava il soggiorno dal resto della casa.

Quando fu un po' più grandicello e, con un’espressione che sua madre odiava, "nell'età della ragione", venne ammesso anch'egli alle "sedute" della madre e dei convitati di salotto; sentì ciò come qualcosa di mistico, una sorta di rito iniziatico.

La madre si guardò intorno e voltò le spalle al figlio. «Ma… mamma,» cominciò piano Arthur, «Platone diceva che i filosofi devono guidare gli uomini verso la vera realtà, liberandoli dalle apparenze e...»

«TU LASCIA STARE PLATONE!!» lo rimbeccò la donna, seccata; si era girata di scatto verso Arthur e i suoi voluminosi capelli, vorticosamente ondeggiando nell'aria, avevano accompagnato il movimento fulmineo.

D'improvviso, sua madre s'era fatta pallida, quasi cadaverica; Arthur guardò un po' più da vicino e notò che le sue guance erano scavate, e due profonde occhiaie solcavano quel volto sciupato.

C'era qualcosa che non andava, ma cosa? Forse aveva visto qualcosa che l'aveva turbata? Forse che, davvero, com’ella diceva, convinta, la realtà era così orribile ed era meglio rassegnarsi e, anzi, contentarsi, per vivere una vita felice, lontano dalla noia e dal dolore? Questo unico episodio segnò lui e le sue successive elucubrazioni; gli tornava in mente persino nei sogni.

Una notte, Arthur non riusciva a dormire.

Scese piano le scale fino al piano di sotto, e arrivò di fronte alla tenda di raso rosso.

Aldilà, c'era il salotto della madre.

Pervaso da una sensazione di eroismo e di mistero, la stessa che lo coglieva quando si trovava a esprimere un proprio umile giudizio in mezzo a quelle anime eccelse, prese un lembo di quella tenda, di quello che gli era sempre apparso come un sipario sulla realtà del salotto e contò: uno, due, tre... Scostò bruscamente la tenda e... si pentì d'averlo fatto.

Sul tappeto indiano, dono di uno di quegli uomini illustrissimi alla madre, vide una scena raccapricciante, il corpo di un uomo immerso in una pozza di sangue.

Immediatamente realizzò con orrore che si trattava del padre.

A un tratto, da dietro la tenda, che era ricaduta a chiudere il soggiorno, comparve la madre. Indosso, un vestito vermiglio; nel volto, sempre più cadaverica, quasi simile al morto; sulle labbra, un maligno sorriso.

«Ciao, Arthur.»

Il giovane la guardò con orrore ed emise un grido strozzato.

«Ti avevo avvisato che è meglio vivere felici nelle apparenze.»

Arthur chiuse gli occhi e li riaprì, sperando che fosse un sogno - un incubo.

La stanza cominciò a girargli intorno, i contorni andavano confondendosi.

Svenne.

Una mano fredda e morbida sulla fronte lo fece rinvenire.

«Arthur, che ci fai sul tappeto?» chiese con dolcezza la voce di sua madre.

«Nulla, mamma. IL MONDO È UNA MIA RAPPRESENTAZIONE. E tale deve rimanere.»

rispose tranquillizzato Arthur, con un sorriso, e indicò alla madre la tenda di raso rosso.

La madre sorrise compiaciuta: anche Arthur aveva capito la lezione...