Kiki Franceschi, prosa inedita, con premessa di Mara Cini

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Una messa in scena, quella di Kiki Franceschi per Mary, dove il “mare selvaggio” di un’epoca “grande e complessa e terribile”  si fonde con i “luoghi inesplorati”  del romanzesco e con le vicende altrettanto terribili degli stessi protagonisti-scrittori. Ma, alla fine, protagonista  ossessiva è la pagina  ancora da scrivere e già macchiata dai pensieri. Non importa se il quadro riguarda la letteratura “alta” o il privato di una “figurina snella vestita di scuro”, fermare i sogni causa quasi sempre (anche ai metteurs en scène) “ la stessa squisita pena”.

 

L’ombra di Frankenstein

Un monologo per voce femminile

Agosto 1823

Mary Godwin Shelley

una figurina snella, vestita di scuro  scrive

seduta presso una scrivania,( una finestra aperta) proiezioni di paesaggi, mani, nuvole, onde. Silenzio. Appena un po’ di luce ne delinea il profilo 

 

ad alta voce 

Quando mi sveglio dalla monotonia delle mie visioni e dei miei pensieri provo a fermarli   con la stessa squisita pena che si prova nel fermare il fluire del sangue. In quei momenti sono come dissolta in un’incredibile tenerezza e provo amore verso tutti coloro, anche estranei che risvegliano e evocano in me tanto sentimento, tanta armonia; sento di amare tutto, alberi cielo,oceano. Discendo nelle caverne più profonde della mente e sfido con occhi d’aquila il sole.

Scrivo perché è naturale come il respiro. Scrivo perché  vorrei strappare il velo di questo strano mondo.

Scrivo storie, frammenti di un’epoca grande e complessa e terribile, riduco a immagine, a visione, quei frammenti. Ho cominciato da  bambina. Mi piaceva sognare e i miei sogni non li raccontavo a nessuno.

Volevo sentirmi in compagnia solo  di me stessa. Complice di me stessa. Scrivevo solo quando le visioni figlie dei sogni  prendevano corpo e colore, odore e sostanza. Nei giorni in cui progettavo il Frankenstein ero terrorizzata, da me, dalla mia fantasia, dalla capacità che avevo di rievocare e dare vita ai personaggi di una storia tremenda…. eppure la scrivevo, come se fossi posseduta, come se non potessi sottrarmi all’angoscia maligna che srotolava i suoi fili e scrivendo tentassi di raggomitolarli per  tenerla a bada.

Sono passati solo sei anni…Quel tempo oramai è così annebbiato, confuso, slabbrato. Debbo tenerlo a bada per non morire anch’io. Mi sento come una formica sola davanti al formicaio distrutto. Che senso ha?

Solo ieri ho rivissuto quei giorni eroici,frenetici e sublimi. E’ stato un caso. Un lampo e sono ritornata indietro all’interno dei ricordi.

Si passeggiava io e il babbo presso il Covent Garden e ho visto il manifesto:c’era il mio nome… riduzione teatrale del Frankenstein di Mary…l’hanno portato in scena…Grande successo pare… ho provato uno strano sentimento tra fastidio e stupore… Mi sentivo a disagio, fuori posto, non ero io, era un’altra Mary, non ero io. Godwin ne era felice,m’ha detto quanto orgoglioso di me, io ero incredula, estraniata, come divisa, slegata da me.

Lontana.

Ora c’è meno luce, oscurità del pomeriggio attenuata dalla luce di candele. Mary è seduta, scrive su di un quaderno nero

Villa Diodati ….era il maggio del 1816.. Era freddissimo, umido, la pioggia incessante ci costringeva  a casa per giorni e giorni, tutti insieme intorno al caminetto acceso  a chiacchierare, a raccontarci  delle meraviglie della scienza, della misteriosa forza che c’è nell’elettricità, di Volta che a Londra si era incaponito a fare esperimenti su rane morte e sembra riuscisse a farle muovere con scosse elettriche. Tutto questo era meraviglioso, sorprendente. Per non annoiarci troppo, si leggevano  a voce alta, a turno, alcuni volumi di storie di fantasmi che ci erano capitati tra le mani, Claire, Byron, Percy, Polly Dolly,  e io.

Interrompe lo scrivere, parla tra sé sommessa

Polly Dolly…povero  Polidori, gli avevamo affibbiato questo feroce sopranome per i suoi modi affettati…ha fatto una tremenda fine, ammazzarsi così giovane. Il laudano è facile da trovarsi, è una tentazione per le anime deboli.. Anche Fanny, povera straziata  sorella mia… anche lei l’ha fatta finita così

Si sente un pianto brevissimo e sommesso. Si alza, va alla finestra.

e parla piano tra sé con tenerezza. Riprende a scrivere

Si leggeva dell’amante infedele che, mentre pensava di stringere la sposa che amava, si era trovato tra le braccia il pallido spettro di colei che aveva abbandonato, e quella storia dell’ uomo che dava il bacio della morte a tutti i discendenti della sua stirpe… Stavo così male…come se sentissi, percepissi  la morte, il suo dolce nauseante odore…

Era stato Lord Byron a proporci di scrivere una storia di fantasmi e tutti e  quattro, Byron, Polidori, Shelley e io avevamo cominciato, forse anche Claire scrisse qualcosa ma non lo concluse. Per me non fu davvero un divertimento. Mi sentivo come presa da un vortice, inghiottita, risucchiata. Andavo sempre più giù all’interno di una profondissima angoscia, e dentro quel pozzo nero ero stranamente immobile,  come se mi osservassi, o meglio, osservassi qualcosa che lavorava nella mia mente e che non capivo

alza la testa dallo scritto, appare assorta,

ero rapita dal mare selvaggio e dai luoghi inesplorati che stavo per esplorare.

Si alza, voce più decisa

Le mie percezioni erano il mondo.

Cambia la luce, ora è quella forte del mezzogiorno. Dalla finestra spalancata si vede un paesaggio aspro di montagna

luglio 1816…

Shelley e Byron avevano rinunciato a scrivere.. troppo banale dicevano. Polidori e io eravamo affascinati da quanto la nostra fantasia inventava. Mostri e vampiri, diversi da quelli delle favole ci stavano accanto, ci divoravano, ci rendevano inerti come bambole di pezza.

Montavert, 21 luglio 1816..

Io e Shelley avevamo iniziato la scalata verso Montavert. Niente di più desolato di questa montagna, gli alberi  travolti dalle valanghe erano tutti piegati in mezzo a distese di pietra. Scrivevo mentalmente il mio racconto. Senza carta né penna, scolpivo  parole nella mia testa, pesanti come quelle pietre.

In quella immensità che confinava col cielo ero poca cosa. Percy mi teneva per mano ma io salivo a fatica e mi sentivo sola. Salivo a fatica e pensavo alle novità scientifiche a Galvani e Volta che usavano l’elettricità per animare rane morte…. chissà cosa si poteva fare  per sconfiggere la morte, la decomposizione… Fu durante quelle chiacchierate che la mia immaginazione  iniziò a donarmi visioni forti che ne generavano altre in rapida successione, con una vivacità molto al di là degli usuali limiti delle fantasticherie. Mi sentivo come ammanettata, vinta,  incapace di oppormi  a quel tumultuoso, torbido, maligno affiorare dal vuoto nero delle memorie.

Era spaventoso.

E’ spaventoso. Perché affiorano nella mia mente queste tremende visioni? Perché prendono il sopravvento e non riesco a tenerle a freno ?

 

Sto male, ho paura, la morte mi afferra per i capelli, aiutatemi. La mia bimba è morta nella culla.. L’avevo allattata, stava bene. Sono andata a prenderla e era morta. La mia bimba senza un nome ancora, così piccina e indifesa. Anche io sono sola a fronteggiare la morte. Vorrei urlare “ aiutatemi”, ma la voce non viene fuori, rimane a farsi nodo nel fondo della gola e io urlo con la testa, con il cervello e mi dibatto e sudo. Ho tanto freddo. Aiutatemi. 

Nessuno mi aiuta. Neppure Hogg. Neppure Shelley che mi guarda sgomento e non ce la fa a dirmi niente. E Claire è troppo presa da se stessa. E Godwin mi ignora. Sono al bando. Sono una creatura mostruosa anch’io. Ho preso tra le braccia la bimba ed era morta. Morta. Sola, nella culla, senza di me, senza che la consolassi, la accarezzassi. Dovevo essere attenta, non lasciarla neppure per un attimo, forse non sarebbe morta.

Non aveva ancora un nome, piccola tenera cosina indifesa.

Era mia, l’amavo tanto e non c’è più. Un attimo e niente. Tutto finito.

Non ha neppure pianto, non ho il ricordo del suo pianto. Dei suoi occhietti blu. Riesco soltanto a sentire  ancora caldo sui miei seni, il tenero e risoluto tocco delle sue piccole mani che cercavano il latte.

 

MARY legge dal suo diario con una voce freddissima

15 luglio 1822

il mare restituisce il corpo di Shelley sulla spiaggia di Viareggio. Il poeta ha in tasca un volume di Sofocle; nell’altra un volume di poesie dell’amico Keats,  con una pagina ripiegata, come se l’avesse frettolosamente riposto. Non si è appurato ancora se Ariel, la sua barca abbia fatto naufragio per la tempesta o per l’incursione di pirati risicatori che infestano le acque nei dintorni. Di sicuro la barca potrebbe aver cozzato sugli scogli della Meloria dato il tempo proibitivo. Un ponente di forte intensità o una delle tante trombe marine che si formano al largo in direzione nord ovest potrebbe aver causato il fatale incidente. Questo scrivono le cronache

 

San Terenzo, 23 luglio 1822

Sono le sei del mattino, l’aria è fresca dopo la pioggia incessante della notte passata. Sul mare c’è una leggera nebbia ma il sole si è alzato e la spazza via. Sento d’improvviso, realmente, con forza che Shelley è morto davvero. E so che questo dolore mi sarà accanto per tutto il resto della mia vita, mi morderà le calcagna come una iena per impedirmi di vivere.

Shelley è davvero morto. Non c’è più. Tutto finito. Vuoto. Assurdo. Morto, disperso. Le sue ceneri disperse. Il suo cuore in una scatola. Un regalo che ho fatto agli  amici cari. Io non lo voglio. Il suo cuore era troppo grande e libero per stare dentro una scatola.

Sono sola ! Le stelle possono vedere le mie lacrime; il vento beve i miei sospiri; ma i miei

pensieri sono come un tesoro sigillato, che non posso confidare a nessuno…ho solo  queste pagine bianche che macchierò di neri pensieri..

 

 

Kiki Franceschi nasce a Livorno e vive da più di trenta anni a Firenze. Discende da una famiglia di schiumatori di mari, bucanieri di origine corso- marsigliese, i “ Franceschi” appunto, che le hanno trasmesso sicuramente il gusto per l’avventura, l’amore per il mare, gli spazi aperti. Si è laureata in Lingue a Pisa, ha dipinto come una forsennata, ha scritto e tradotto, tenuto conferenze. Nel 1979 si avvicina al gruppo Lettrista , nel 1981 entra nel movimento INI, cominciando una sperimentazione poetica e visiva che ancora persegue. Dal 1970 ad oggi conta oltre quaranta personali in gallerie italiane e collettive in musei italiani e esteri: Centro per l’arte contemporanea, Gallarate, (Varese); Forte Belvedere, Firenze; Centre Pompidou, Parigi; Grand Palais, Parigi; Museo Reina Sophia, Madrid; Fundacion J: Mirò, Barcellona; Centro Cultural La Recoleta, Buenos Aires; Museo di Kemi, Finlandia; Museo Vittoria Colonna, Pescara; Museo Marc Petit, Ajaccio; Museo della Carale, Ivrea, Maison d’Italie, Parigi. Ha scritto saggi poetici per i tipi di Polistampa e Gazebo, editori in Firenze.