Silvia Comoglio, poesie da “Silhouette”, con una nota critica di Giorgio Bonacini

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ho messo in scena - l’álbero e le rose,

la silhouette del vento e del mio amore

 

In do maggiore IV

 

: → bianchíssimo più bianco il cuore

che ébbe in una stella - il suo tutto - incandescente,

la sua netta - térra - di preghiera ---

 

 

                            *

 

: → precíso, precíso è lo stupore

nell’incanto di sempiterne memorie della voce ?

“góte píccole di mondi dove – qui-è-il-cielo!

e quésto di recente appena – respirato!

il pruno scuro nell’ansa dell’inverno → il modo eterno

di dire e sillabare sono stelo - e ómbra -

mite a suono ---

 

 

In do maggiore V

 

: → è térra – In-altézza-di-radice!

quanto già predetto déntro questo specchio, quánto ?

già cantato, cantá-to a menadito: do re mi

di inverni e molte estati, e lúci - supine - di sutura:

dimore incerte degl’álberi di passo - fioríti - sulle fronti ---

 

 

In do diesis

(in luogo di p.s.)

 

→ : dísse - a bassa fiamma - l’estremo suo profondo

schiarirsi nella terra, il suo farsi - tótem - abbacinato

 

 

In re minore I

 

... nell’antro – Di ogni sogno!

vénni io a dilagare perché tua essenza

è il termine rubato al vetro che riluce, misura

fatta di radice límpida di sguardo ...

 

 

*

Guardarvi in ogni stanza come se voi foste

profondo témpo a sortilegio : → nuda causa prima

del giorno che ricresce nell’ángolo davanti

il mare e la montagna, e il solco ripiegato

in lunga sua figura : → “álbero dell’acqua

sott’acqua già imbarcato, “ócchio chiuso chiuso

déntro il suo tinnio, nell’anima che soffia

róse - di nuda - nuca bianca ---

                             --- 

 

                             In re minore II

 

: → e dópo - dopo la deriva - ci sia un elmo,

úno - per ogni - nuova stanza, e un fiore

apérto - di nótte - a meraviglia : un raggio

ricurvo come prua, e lúna - Luna-in- abbondanza!

a rimedio - dei rimedi, ad intátta

síllaba dei cieli ---

 

 

*

:→ muore - muore-il-mondo! tacéndo

a paradiso, muore - quell’éssere per sempre

sotto la tettoia, in qualúnque

sguardo dell’ortica → “muore, muore scuro

nel báttere a galoppo di álbero e nitrito,

intátto per ogni suo peccato in ógni ?

suo castigo ---

---

 

In re minore III

 

…ébbi - innanzi agli occhi

álberi e cerbiatti álti e di profilo ?

l’álba e la mia tana battuta contro muro…

 

 

*

generarti a nome del mio tempo

fu l’unico segreto, specchiato e dondolato

in sogni impenitenti - di labbro e di fessura ?

fu lava - ai piedi già ghiacciata, l’incavo

segreto di paura nel buio sconosciuto ?

il mare! archetipo di spazio nell’atto di dormire [ ]

[ ]

 

 

In re minore V

 

[ tutto fu misura di conscio crepitare a terra di boscaglia,

“álbe – Rese alte! da incógnite tue rose, “fíbula del tempo

di guardia alla fontana ---

 

 

*

:→ fiorisci - dúnque - in rottura di parola,

nel sempre che si accosta ?

a boe, e puri soffi, a módiche tue brezze

accólte - nel mondo - in entroterra: gomene

Trainate curve! fino al corno in cui cantando

abbellisci a squarciagola: → profilo che ti chiamo

smussato delle labbra : → mio - strano dire

di mio - strano cuore ---

---

 

In re diesis

( in luogo di p.s.)

 

→: sono elmo di tempo che si avvera, gomena

Trainata curva! in abbaglio di materia : módica tua brezza

di ombra senza terra ---

 

 

In mi settima diminuita I

 

Gioco già cosparso - di ciglia e di memoria

l’orlo di pietra ignota e terra smisurata : lábbra ?

prensili di luna, contratte - nei geli degli inverni ?

ómbre e violacciocche vegliarde e frettolose,

sottopeso piegate come fronti ---

 

 

In mi settima diminuita II

 

L’UNO verso l’altro,

a tempo di segreto: sbáttere di porte

in volo interrogate: álberi che vanno

óltre - la lúcida cometa, sciólti

in ordini leggeri - di scavi

e migrazioni ---

 

 

In mi settima diminuita IV

 

L’INCAVO - tra il sogno e il tuono

è la rosa plasmata a dismisura, térra

che occupa se stessa germogliándo

in ácque di silenzio, in vértici a dimora

di un lungo solo bacio perfétto di ventura ---

---

 

 

In mi settima diminuita VII

 

:→ tuo viso - l’altezza che sprigiona

silenzi già cercati nel cavo delle mani ?

fiamme di materia - nate - dall’éstasi che fece

di quésto quasi tempo sicure dispute di sogno ---

---

 

 

In fa diesis I

 

: → sí-lhouette di rosa non rosa

la bruma che atterra ombra e paura : l’ócchio

reso dettaglio di forti fruscii di voci ---

 

 

*

 : → sospeso ora a mezz’aria è il largo tinnare

di un fondo di suono, l’orco e il profano

a inizio profondo di cambi di impronta

nel folto del bosco : múra ?

di schiuma leggera, vermiglia sui rami,

sui lumi - incisi di vero, veggenti di cieco

colpo di vento, térra che scorre proibita ---

 ---

 

 

 In fa diesis IX

 

 

[ pronún-cia, pronuncia sottovoce

il non-sogno guardato a tenerezza : i pioli

del cielo - da stanare ...

 

 

                                      …

L’esodo che viene è la vostra sola testa tenuta tra le mani,

il lámpo - oscuro e trapassato - del mondo che ricade

dénso nel suo capo, nel moto che tránsita di fuoco,

óltre le locuste - nere - di peccato –––

_____

 

 

In la diesis I

 

 

Parte e si diparte lo stormo degli uccelli,

spigolo che curva terre costruite

in opposti versanti di radice : occhio e mondo

scuri di frontiera, sabbia e pura gemma

di notte che si allarma in lunga traiettoria,

a sogno che già dorme in moto di presagio,

in néro álbero d’ortica ---

---

 

 

In la diesis II

 

:→ l’ócchio, mi siete l’occhio

fiorito sul leggio, e il conto degli scarti

nel sogno navigati, come térre, terre a profezia ...

 

 

                                      *

: → filare bellí-ssimo e vivente il corpo diventato

asprezza! dell’orbita del mondo : stormo

di altíssima dimora, apérto, aperto a sentinella

nel verbo dell’ortica : → lá-crima svegliata stornando

térra dalla terra, “l’ómbra - dall’álbero fantasma ---

 

 

In la diesis VI

 

[ spargete - immóbile vi prego - quésto lungo bosco,

la chiusa dei lunghi mondi - venuti - qui per gioco ...

 

 

*

:→ fíno a questo dire è salita ?

con l’árgano la voce: silhouette - informe interamente,

strana luna corsa tra le porte della stessa stanza, sfogliata

sull’orlo dello sguardo - stupefatto - di sibilla [ ]

[ ]

 

***

La poesia è sicuramente, per chi la fa, opera di lingua totale. Lingua che ingloba in sé le potenzialità e le diversificazioni tecniche e significanti di ogni forma del dire, virtuale o in atto che sia, in modo tale da farla essere scrittura vitale e non solo d’arte. In questo senso il canto di Silvia Comoglio sceglie una direzione modulare e sonora (già sperimentata in altri suoi libri), particolare e fondamentale per la sua idea poetica, resa totalmente evidente con la notazione musicale a titolo di ogni suo testo. Leggere la partitura di queste poesie è quindi un’esperienza unica: tutto è concertazione e concentrazione di suono e ritmo. La grammatica innalza le sue sonorità, i segni si espongono, il sintagma si spezza e si ricrea nella voce mentale e nella concretezza di consonanze vocaliche che danno parola al testo e prefigurano un ascolto.

Ma è quando il senso si riversa nel suono che il lettore viene catturato e obbligato, con il piacere di lasciarsi avvolgere e coinvolgere, ad agganciare le sue interpretazioni a riverberi, a onde, a rifrazioni sonore che prefigurano e indicano un percorso. In queste poesie il linguaggio viene frantumato e ricompattato continuamente, e l’aspetto sillabico-fonico, imprescindibile in una scrittura/lettura vocale, è determinante per il candore e l’armonia che la musica imprime nel paradigma esistenziale in cui l’autrice è immersa e da cui emerge per dirci cos’è che avviene lì sulla pagina. Un mondo prende vita e voce, un mondo che abbraccia il tutto naturale, emozionale e immaginario che solo una lingua incantata, ebbra e amorevole può rappresentare. E lo sviluppo che Silvia Comoglio opera del soggetto poetante dentro questa materia, è completamente aderente al percorso narrante di un io che la poesia estrae dal poeta per dirsi nuovamente.

Scrive l’autrice: ”→ stanotte – sono – chi racconto/.../”. E lo scrive in due momenti diversi, per due figurazione diverse: una di memoria slegata e verità di percezione, l’altra di finzione senza falsità innaturali. Ed è tra questi due poli, tra bugia e leggera follia, tra rosa e micro-bosco, che prendono vita le circonvoluzioni di una voce sognante e sonante. E’ nella notte, nell’oscurità che emerge pian piano uno scintillio di luce che chiama le cose a darsi forma, protette da un’intimità lieve, sfiorata, mai violata. Un soffio interiore consapevole che cercarsi e guardarsi è libertà d’immaginazione vera: musicata e dondolata al ritmo del corpo, del respiro, dell’occhio, in melodie anche spezzate e zigzaganti, ma sempre in armonia con la scrittura che ne è la consapevolezza e la bellezza reale.

C’è una struttura, che tiene l’andamento e la compattezza di questo poema, sostenuta da un equilibrio che possiamo chiamare affettivo: quello di una lingua tenera ma ferma, che mostra senza pudore i suoi tratti trasparenti, a volte informi, a pelle liscia, cuore infante di stupore arcano e mistero sibillino che sta “nel letto della voce”. Perché è nella parola che si ama; è con il suono che si abbraccia e si trema. E in quell’oscuro chiarore, che è il lato ombroso del linguaggio, dove il tanto e il poco sembrano pronunciati con timidezza, in realtà è lì che si situa la passione del canto: dove ciò che sta davanti si intuisce ma non si vede, se ne percepisce la silhouette, il contorno sufficiente a circondare e a stringere “l’ombra e l’ombra e l’ombra”.

Ma l’ombra, che non ha spessore né attrito, è anche sintomo di una leggerezza che percorre e lega la modulazione dei testi. Una notazione sospirata, ondulante che scrive e sogna come dire ciò che dice: terra e aria, gravità e levità. Infatti nelle varie poesie la presenza di elementi vivi del paesaggio naturale ha la capacità di costruire, intorno a se stessa, un microcosmo di fisicità che àncora la scrittura a un sentimento capace di pronunciare i versi come fili d’erba. Ma, ancor più, di risuonare in consonanza o dissonanza con l’alba e i piccoli animali (lumachine, rane, uccelli, scoiattoli) che vivono nel testo e ne rispecchiano, senza nessuna ingenuità, i moti spontanei. E lì, dove il fulcro dei testi si raccoglie in parole, sillabe, fonemi – scansioni precise di lingua, voce, suono – lì sta la natura poetica del mondo. Un luogo che da questi segni è nominato e con questi segni rifatto nel tempo e nello spazio, nella storia e nelle storie, nella consistenza e nella forma, perché, e pensiamo a Wallace Stevens, il poeta suona e non suona le cose come sono.

E anche i sogni o i movimenti sonnambuli, che l’autrice pone quasi a fiaba di fanciullezza iniziale, a cui la poesia sempre tende e da cui ha origine, stringono a sé un vortice di vento i cui effetti, pur vedendosi soltanto in superficie, sprofondano in una ventosità estenuante, una “ùr-/genza di stare contro/.../” per dare realtà all’immagine vera di un mondo ricreato “nel vento/eterno del prato”. Ma in questa scena di quotidianità trascendente Silvia Comoglio riesce a darci, con una mirabile capacità visiva, una folgorante visione del suo strano cuore, nello strano mondo del suo strano dire in un “làmpo di ànatra che guarda la persiana buia della casa---/”.

E’ questo il dicibile difforme, ma poeticamente reale, che l’autrice ci mette davanti: come a dire che non c’è vita senza poesia e la morte sta nella mancanza di canto. Perciò si deve scrivere sillabando il respiro nella mitezza di un suono d’ombra, in questa sinestesia che è il centro della voce. Non una riga senza avere pensato o sentito ciò che essa scrive, dice Joë Bousquet; così per Silvia Comoglio è la metafora del canto a sentire la concretezza nella vita del poema, in una voce che sempre si dà “déntro il suo nome precíso”.

 

 

Silvia Comoglio è nata nel 1969 e vive a Verrua Savoia (To). Laureata in filosofia, ha pubblicato le raccolte Ervinca (2005), Canti onirici (2009), Bubo bubo (2010). Suoi inediti sono apparsi nel blog “La dimora del tempo sospeso” e nelle riviste “Il monte analogo” e “Le voci della luna”. E’ presente nei saggi Senza riparo. Poesia e finitezza e Blanc de ta nuque, entrambi opera di Stefano Guglielmin.