Pietro Altieri, poesie da “Ubiquità del bianco”, con una nota critica di Giorgio Bonacini

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da Nessuna pietà per chi si volta indietro

Eravamo morti e respiravamo
Paul Celan

Vicolo cieco

Nessuno respira,
in attesa di un nome.

Un’ombra sconosciuta
sosta
agli angoli di un volto.

“e il Vicolo Cieco
è sulla faccia di tutti”.

 

Abendland

Trascinarsi in ginocchio alle foci del Futuro
con la neve nascosta del tuo respiro.

Dove in cielo splendono due soli
ogni cosa proietta al suolo
una duplice ombra.

Deboli fuochi fatui
nel sonno bianco e nero.
Nessun piede umano lascia impronte.

Stelle infrante precipitano
sulle Terre della Sera.
 

XX Secolo

Fiordi vivi di sguardi, l’ora nuda
curvata sul quadrante.

Le lune spente dormono per noi.

Fredda la fronte penetra negli occhi
di chi rimane o ripete.

Più giù la vita, lampeggiante,
conficcata nel vuoto, un dito
indica, indugia.

Il freddo non ha fratelli.
 

Allora

La notte sulla nuca,
ad angolo retto,
a tradimento.
Il dolore culmina, cessando.

E adesso
il gesto eluso, ripiegato,
come un vagito,
nell’utero dell’ombra.

Le cose senza peso,
separate nel sonno –
carne assalita dal bianco della neve,
senza un filo d’infanzia.

Mordeva luce
alle radici dell’aria.
Emorragia d’ossigeno:
bolle di parole
le scoppiavano in gola.

Scrutammo a stento
lo spessore del sangue –
quel cuneo oscuro
tra vertebre e vuoto,
l’assoluta opacità del suolo,
del respiro.

Clessidre nere

 

Lingua

È la lingua
a scegliere le bocche,
crune del dire.

Senza saperlo
essere,
prosciugato nell’eco:
ossidi di stelle.

Profili pensili,
scavati
nelle vene del vuoto.

L’oscillare del nulla
tra due specchi.

 

da A Sud di se stessi

Attesero che un nome
diventasse neve, poi
sparsero capelli e cuori,
all’infinito, su tutte le pareti.

 

Nulla

Nulla restando
freme.
Fermo sul filo del mondo,
sull’orlo del grano.
Nell’urto meridiano della luce.
Il volo adunco di un uccello:
accenna, acceca.

 

da Tutte le direzioni e nessun senso

Camminarono attraverso una città di
film in bianco e nero, strade che
sbiadiscono con migliaia di volti
corrosi dal fumo. Figure del mondo
rallentano fino ad essere catatonico
calcare.

William Burroughs

Il tempo

Il cieco incide cifre
sulla tua fronte,
un numero nero ad ogni errore.

Cenere, color pensiero,
cenere, e cicche spente
- pezzi di vetro
a un centimetro dalla tua voce.

Lacera l’aria verde,
poi ricuci il bordo.

Un’ora stinta ruba le promesse,
adegua i passi al suo respiro.

Non ha fiumi la notte,
soltanto corde
sospese vive tra una lama e l’altra.

Il tempo non ha rive.
 

Respiro

Traduci il sonno in una sera sola,
agli eremi di un nome,
trapassi l’aria con un altro
respiro di stupore

- terra di meduse,
nessun sale sazia la nostra fame

- terra di rose,
le tue dodici infanzie esterrefatte,
ad est di ogni errore.

Nessun sonno.
Nessun sonno.

 

 ***

In poesia il senso è a disposizione di chi sa attendere la sua apertura, che spesso avviene in modo oscuro o lentamente improvviso, mentre si è, ci dice Altieri, “in attesa di un nome”. E proprio in questa raccolta l’autore ci mette davanti la possibilità vitale, di un significato come ombra immaginativa, tesa tra l’esperienza che la scrittura designa e indica e la trasparenza o disvelamento che va oltre quel fondale bianco che fa da scena vuota di un’esistenza ancora iniziale. Ecco, allora, uno dei motivi di questa poesia, dove la metafora si fa veramente cosa-di-parola: non connotazione per dire altro, ma un altro dire in voce nitida: a volte fredda, laconica; a volte tesa nel suono che la muove; a volte dura e pulita; a volte leggera e soffiata, ma sempre scolpita e avvolgente, così da dare svolgimento e significazione a geometrie di profondità, di precisazione e di sollevamento. E ne vediamo gli effetti nei tanti testi in cui gli elementi naturali più soffici e impalpabili, ma anche fra i più percepiti dal corpo, risaltano e operano come attori di scrittura: neve, gelo, acqua, vento, aria. E per ognuno vediamo il verificarsi di vortici, frantumazioni, sospensioni in cui la parola, già figurativamente corposa, si trasforma e trasfigura in sé la concretezza e l’essere stesso dei fatti di natura. C’è una stupefazione tale da rendere possibile anche i contrari visivi e concettuali: ad esempio l’intromissione dell’alba nella notte, con rotture di sbarramenti fisici che preannunciano esplosioni di luoghi temporali, istanti che cadono “tra i rottami luccicanti dell’occhio”.

Ma è anche una poesia, questa, che prende dal silenzio e contemporaneamente lo ospita, riducendolo ulteriormente in un rumore opaco, fatto di vuoti ancor più lacerati dall’aria. Sembra veramente una lingua fatta dalla stessa materia a cui dà voce. Lingua fatta con lo stesso attrito, stessa sostanza, stesso colore, fino alle ferite inflitte, al taglio che “lesiona i suoni”. Ma la parola è anche soffio sillabico, corpo di musica, vocalità minimale che non esce indenne da qui: da questa gestualità sonora che sottrae segni all’ascolto per riportarli e lasciarli a pause notturne. E’ una voce di sinestesie efficacemente estreme; una voce che vede con sguardi che assalgono e appesantiscono l’aria. Dove gli effetti sono visibili, perché sono fatti di vento che disperde e fa riemergere alla mente “le frasi mai dette”. Quelle che permettono alla poesia, e in particolare a questa poesia, di crescere in se stessa oltre il dire e il sentire la sua origine: verso un inizio futuro mai definitivo.

La parola deve allora essere trovata nella sua giusta dimensione: che non è più quella conforme a una supposta realtà designata, ma nella sua metamorfosi e metafora dove “solo se ascolti, piove”. Uno sgocciolamento, dunque, una frantumazione che acquista e perde il suo sentimento pensante, innumerevoli e indeterminate volte. Ed è così che Pietro Altieri svolge il suo andamento frastornante, ma ugualmente lirico, senza soggettività, senza contemplazione, ma facendo oggetto di scrittura un panorama lacerato,un paesaggio della mente che fotografa immagini così sottili “che nessuno vede”. Quasi fossero conficcate in un’aria solida, densa, in un biancore che trascina a sé il giorno e la notte e impedisce o svuota ogni tentativo di raggiungere la felicità ingenua del cuore. Ma senza preclusioni, senza tacere la dimensione emotiva che anche una sola e semplice parola può creare. Perché anche “se c’è la neve” e “la pietà non viene si accende ugualmente in un angolo un sussulto di tenerezza e di tristezza quotidiana, in un quasi crepuscolare “martedì/e gli angoli sono ancora spenti”.

 

Pietro Altieri, nato a Napoli nel 1952, vive a Roma.
Insegna Storia e Filosofia in un liceo scientifico.
Si è occupato a lungo di poesia, ha pubblicato su diverse riviste come "Galleria", "Pragma", "Il Rosso e il Nero", ecc. Inoltre ha scritto due raccolte di poesie, "Specchi Ustori" (Andrea Livi Editore, 1991) e "Ubiquità del bianco" (reperibile sul sito on-line http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=568923, con prefazione di Milo De Angelis).
Ha recentemente scritto un testo in prosa, dal titolo provvisorio “Una disperazione confusa”, ancora inedito.