Laura Caccia, Premio Raccolta inedita 2012: da “D’altro canto”, premessa di Giorgio Bonacini e nota di Stefano Guglielmin

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Davanti a questo esistere,
all’ora locale, dilatando la strada
e la storia ai loro sguardi
in ogni traduzione e carezza

Quantomeno non si lascia
alle spalle erbe abbottonate al cielo,
terra e porti fuori
angolo Qui è parola

minuscola all’unisono,
ferma sulla nostra pelle, ha impronte
minerali, filo spinato
tra le sue fenditure Un canto

piegato verso i traslochi
in prestito dalle proprie origini dove
le foreste si smarriscono,
dove nidificano

 

 

Quando si avvia a parlare il poeta non sa qual è e dov’è l’inizio da cui spingersi, parte verso una direzione ancora sconosciuta e comincia a dare voce e scrittura, per prendere vita e ridarla. Così, per Laura Caccia, partenza e percorso prendono forma con l’ignoto: che è principio di attrazione e di conoscenza. La sua è una scrittura che affonda in un sentire, fisico e intellettivo, dove ciò che non si sa è quasi una fluttuazione potenziale, un vuoto d’ombra da cui emergono, come quanti di realtà, “notizie... paragonabili a un’ emozione...”. E da qui comincia a farsi strada, in un tragitto di sequenze e conseguenze, un senso che cerca nel reale l’accordo con l’esistenza. Partendo dal non-ancora-conosciuto, che ha il suo rifugio nel  mondo che c’è, l’autrice incide con una metafora ancora oscura, ma che va lentamente a prendere luce. Una luce, però, non omogenea, perché la poesia, questa poesia, non può che dislocare parole e connessioni difformi, non comunicazioni in un “inizio capovolto”, dove l’umanità sembra andare al contrario.

Ma il poeta ha, nel suo sguardo lucido, un orizzonte di appartenenza e memoria, di vuoto e spaesamento, non come sintomi contraddittori, ma cambiamenti e rinforzi incessantemente persi e ripresi, e ogni volta arricchiti dal mare di nomi che la parola poetica si prende a cuore di far crescere. La voce dell’autrice si costruisce in versi che sembrano percorrere un labirinto ricorsivo, un andamento di circonvoluzioni piane, senza stacchi: così come è senza fratture la visione a cui è data “tutta la leggerezza che occorre” per transitare verso l’inconosciuto. E più la percezione si avvicina alla fonte di ciò che risuona nella mente, più il dire aumenta il suo sforzo per sostenere il senso che sembra non appartenere nemmeno alle cose. Ma se così è, allora il sentimento che anima i segni deve portare necessariamente a una voce che convoca il nulla. Ma chi scrive sa che è la poesia a riconoscere e a dare nuova identità al suono che si è perso, con un respiro che, anche se flebile, non è mai compromesso con i dati apparenti. E’ sempre un’opposizione alla realtà, un contrasto che intreccia silenzio e voce senza appartenere né a l’uno né all’altra, né ad entrambi: ma al loro imprimersi ed esporsi, in vista di una vita reale e perturbata da un esproprio che porta stupore contro le anticipazioni del senso comune.

I versi non conoscono tregua, emergono e si diffondono come per ripopolare il mondo, e lo fanno con una naturalezza inimmaginabile in un pensiero che non sia mosso dall’ adesione totale con la parola da cui è prodotto e che produce. Così l’opera che si fa apre a una visibilità altra, non ancora codificata, dove può capitare di “smarrirsi tra le incrinature” della sua materia. Ma ciò è un bene, per polverizzare “verità illegittime”, che solo la poesia, come una scienza dell’incanto, può ricondurre al vero. Laura Caccia chiede al lettore di affrontare un perturbamento che raccolga in sé la perdita di senso che spinge a rientrare nel sonno del silenzio. Perché solo così il vivente può riavere parola e scrittura, per ospitare la meraviglia e musicare il dolore. Ma c’è un rischio: non riuscire poi a tenere salda la concretezza dell’ immaginazione. Un’esondazione potrebbe portare all’oblio per troppa oscurità o all’ accecamento per troppa luce. Qui, però, dove non c’è sperpero di lingua, la poesia riesce a dare alle figure il riconoscimento del proprio dissentire, grazie alla fervida emozione che “scioglie sintassi e orizzonti”.

Questi testi non sono mai dettati da smania di dire, ma da un sentire polivalente che sgorga dalla sorgente di una respirazione parlante, ai margini di quel vortice lento, che diffonde grafia e fonia a formare una propria interiorità. E’ questa la sfida che i versi accettano: spogliare una supposta verità e riportarla al canto intimo di “vita inedita”, di “grammatica umana”. Sono fruscii e luccichii dentro cui anche smarrirsi, ma sempre per poter rinominare “lo stormire del mondo”. Ecco la disposizione all’ accoglienza di ciò che non si sa, ma che certamente è: raccogliere la precarietà di ogni significato e la dissipazione che attua la sua semina, per far crescere una lingua senza abusi. Una lingua che dilati la sua esistenza fino a contenere, anche solo nello spazio di una sillaba o nel tempo di una pausa, lacerazioni e ferite, dimenticanze e perdite. E’ a questa tensione che Laura Caccia affida il suo pensare, impaginando un reticolo che contamina se stesso nella cura risorgiva del poema: con ritmi e ondulazioni che mai si perdono o inciampano in ingenuità o artificiosità. La poesia è un’arte speciale: ha in sé la propria consistenza e la propria dissolvenza, ed è qui che segna ciò che è “affidato alle sue tracce”: un sommovimento incurante delle moltitudini che ripiegano; una sollevazione che porta traslochi e discordanze di senso e smantella le immagini chiuse per dare esistenza, per riparare, per dare un nido.

 

Postfazione di Stefano Guglielmin
6 poesie da “D’altro canto”

 

Laura Caccia, nata a Varallo Sesia (1954), laureata in filosofia, lavora nella scuola e si è dedicata per diversi anni alla pittura.
Dopo Asintoti, Cierre Grafica 2004, l’interrogazione sulla parola è stata la ragione e l’oggetto principale della sua scrittura.
D’altro canto vuole essere un omaggio ai poeti, la cui eco ne ha contaminato la ricerca, e a tutti coloro che si prendono cura del dire e della sua indicibilità.