Leonardo Bonetti, Una riflessione a margine su “A libro chiuso”

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A libro chiuso
riflessioni a margine
di Leonardo Bonetti

Perché A libro chiuso? Perché un libro dovrebbe essere rappresentato attraverso la propria chiusura, la propria resistenza all'esibizione? Forse per un problema di moralità, di diffidenza calvinista verso le estroversioni della cultura?

Non credo. Questa immagine verbale, così a me sembra debba essere intesa, nasce infatti da un'esperienza vissuta sulla pelle del libro stesso. Sulla mia stessa pelle. Frutto di un rapporto che ha origine nell'infanzia.

Sin da piccoli, infatti, apriamo il libro trovandoci di fronte alla sua pagina luminosa, aperta. E la parola ci appare fissata, immobile, persino eterna. Crediamo che dietro questa sua immobilità si nasconda un enigma da sciogliere. Noi dobbiamo capire, comprendere, far nostra la parola scritta sul libro. Sin da piccoli la nostra esperienza del libro si fissa nello sforzo di comprensione del significato della sua parola. Ed è solo quando assolviamo a questo nostro piccolo dovere che possiamo chiudere il libro, riporlo nella nostra libreria, sui nostri scaffali, accanto ad altri libri chiusi, saldati, imprigionati. Sicché ogni qual volta passeremo di fronte al libro chiuso nella nostra libreria avvertiremo un sentimento di turbamento, un'attrazione o una repulsione, l'urgenza di riprendere il libro e aprirlo di nuovo o, invece, il bisogno di allontanarcene con spavento. A volte, infatti, noi sentiamo di non aver portato a termine fino in fondo la nostra comprensione del libro. Che qualcosa ancora deve essere sciolto del suo enigma di parola. E questo avvertiamo e viviamo come una umiliazione.

Ebbene, io credo che una tale incapacità di ridurre il libro a significato definitivo non debba essere vissuta come una mortificazione ma, semmai, come un impulso verso il mistero del senso della parola del libro. Perché la parola affonda sempre, nel suo significato più fecondo, all'origine del pensiero e del rapporto tra natura e mondo. Così che la congiunzione possibile attraberso la parola poetica acquisisce una funzione più sottile. Essa è il tramite che ci permette di passare dal significato al senso. Con questa parola intendendo non la ricerca di un luogo ultimo ma, semmai, la direzione di un cammino.

Il libro chiuso è dunque tra altri libri chiusi, saldato nella prigione di una libreria. Quella libreria fisica è il nostro cuore. Il libro chiuso è sepolto dentro di noi. Abbandonato. Possiamo paragonarlo all'infanzia perduta, al bambino ripudiato nel fondo della nostra memoria. E mi viene alla mente l'apothesis greca, l'esposizione del bambino, l'abbandono del bambino alla morte. Nella Grecia arcaica questo è a volte il luogo d'inizio di un libro. E penso all'Edipo. Il bambino esposto e abbandonato non è morto. Vive ancora. E dentro di noi il libro chiuso, come l'infanzia che crediamo perduta, non è materia inerte. È ancora capace di sprigionare una energia, di innescare una reazione salutare. Il bambino abbandonato che è in noi, il bambino creduto morto, è la nostra speranza perduta, l'immaginazione offesa, la scintilla mancata.

È a partire dal bambino che abbiamo esposto e abbiamo abbandonato che potremo vivere le epifanie dei fatti più insignificanti. Attraverso la scintilla dell'immaginazione capace di tramutare un semplice dato di fatto in mondo, in visione.

Dobbiamo credere nel bambino abbandonato che è in noi.

Il libro è chiuso perché solo nella sua chiusura può costituirsi di una materia di parole dimenticate, di detriti, una pietraia di parole appartenuta a un registro sotterraneo, a un bagaglio fuori dalla memoria razionale, all'ombra della coscienza, occultato in un qualche angolo riposto. Parole di una memoria dell'ombra, ma non per questo meno sperimentabile. Ed è l'esperienza di questa memoria di libri, di queste aure interrotte che fa il libro chiuso.

Tanta è la fiducia nel libro che è solo nel momento di maggiore debolezza del libro stesso, quella che viene giudicata apparentemente come la sua massima fragilità, quando è chiuso e dimenticato, che il libro agisce contro la nostra volontà e alle spalle della nostra capacità di controllo. Non si tratta di una vendetta del libro, sia detto chiaramente, ma solo di un'affermazione naturale del suo potere povero, indigente. Perché il libro chiuso è un contropotere. Il potere della sua sapienza che non vende e non nasconde. Un potere nascosto costitutivamente, senza calcolo.

E allora la parola del libro chiuso è nell'arco di un ponte che approda a due rive del sé. Tra queste due sponde di fiume gioca incessantemente la sua fortuna. L'arco del ponte suo arco d'orizzonte. Uno spazio stretto tra fiume e foce, tra canali e luce di canneti, e dune e sabbia e vento e sudore. Arco di ponte e di parola tra due lingue, tra due voci. Così che la scrittura, arretramento e sconfinamento possibile, sia occasione da tentare in un luogo e in un tempo che divorano se stessi.