Laura Caccia su Carrube di Vittorino Curci

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I doni assenti e presenti della vita

Sono “doni terrestri” quelli che Vittorino Curci sgrana in “Carrube”, con una pluralità di immagini e di ritmi che orchestrano la pulsazione della vita, le cronache dei vivi e dei morti, le sincopate domande di senso.

Sono i frutti che la vita porta con sé, nutrimento particolare, come i baccelli della carrube, e ricchezza, come i semi, utilizzati in passato come misura dell’oro: così “sei sulla buona strada / perché anche i morti sono semi / che patteggiano con la terra / un modo per tornare”, scrive l’autore, convinto che “se siamo strumenti della vita / siamo in buone mani”.

È però una voce dolorosa, tra “la sofferenza più predace”, memorie da scarnificare e disamori, quella che racconta storie di vita, come leggiamo: “ho messo il vestito nuovo / per sentirmi altrove come uno / che viene fuori dal niente e prega / in una lingua sconosciuta”

Nel fluire della musica della vita, tra “onda o risacca”, giungono allora i ritmi sincopati che rovesciano il senso vitale nel “dono assente dei quasiversi” e che interrompono il narrare con la riflessione dolente sul tempo e con la forma interrogante della ricerca di senso.

Così l’assenza prende voce, si fa “canto sperduto nell’aria”, come, ci mostra Vittorino Curci: “l’erba dei tetti / nella strofa che invoca / l’ultima stesura. / se ci fosse un fiume lo canterei. / l’ho anche fatto, e il fiume / non c’era”.