Giorgio Bonacini su Mise en abîme di Paolo Donini

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Quando lo sguardo del poeta sceglie un segno o anche solo un suo visibile ritaglio, muovendosi lentamente in una direzione prospettica che coglie quel particolare dell’ immagine, con nitidezza leggera e, nello stesso tempo, con attenta percezione visiva dello scrivere, allora reale e sogno si uniscono in una visione in cui la certezza di ciò che si vede non si disgiunge mai dalla parola che, con lo stesso andamento immaginifico, ne dice la forma sostanziale e significante.

Così in questo poemetto Paolo Donini vede scrivendo, con un pensiero poetante che si fa voce e figura. Ma in ciò non c’è nulla che assomigli a certa poesia descrittiva che ingenuamente si limita a descrivere il veduto. Qui la ricerca di lampi di trasposizione in continua immersione ed emersione sta nella verosimiglianza interiore alla percezione e al senso di conoscenza. La consapevolezza dell’autore (il titolo ne è testimone) si evidenzia nel mettere al centro della formazione dell’opera, più che l’osservazione, la conformazione di un accadimento reale anche nella misteriosità della sua esistenza.

Il mondo indagato che Mise en abime ci propone è un vortice lento di manifestazioni concrete, ma viste, e ancor più dette, come guardate in ascolto dalla parte ombrosa, sfumata, un po' sfuggente e sfrangiata , come “una cosuggia nera” che “passa sullo sfondo”. E allora sarà perché la percezione di ciò che si legge affonda e riaffiora nell'esempio accolto, intorno a cui ruota l'architettura intima del canto, e cioè un quadro di Bruegel il Vecchio; o forse perché da questo pullulare di vita in movimento statico, fissato ma non bloccato, non muto sulla tavola dipinta, emana una pensosità interrogante sulla totalità dell'immagine e, non disgiunte, su minime particolarità considerate, con inventiva esattezza, lì “dove niente resta uguale”; sarà per l'impressione e il sentimento di lento fluire verso un “unico niente”, in ogni caso, e per ogni considerazione, la scena che noi leggiamo manifesta l'ondulazione continua di un'opera che, attraverso l'autore, tenta di assorbire l'inquietudine di una perdita e la stupefazione che un paesaggio reale, proprio perché, mentale e poetico ci presenta. Un paesaggio dove l’inverno, rappresentato dal quadro, è metafora costruttiva di un biancore che attraversa il sintagma luminosamente oscuro di un panorama velato, ma dove basta un bagliore per, se non disvelare, almeno rivelare la meraviglia di un segreto che tale rimane: la dimensione particolare, in punta di pennino, del luogo. Ma è ciò che non si sa che continua a girare dentro la pagina, a infiltrarsi tra le parole, nel loro andamento errante e a non permettere, apparentemente, lo sviluppo di un vero inizio e una reale continuità. Ma il senso è proprio in questa ricorsività, sempre diversa nel suo ritornare e stare sulla “soglia non della voce/ma del silenzio”, dove forse ogni suono cadrà, svuotato, senza che se ne possa avere coscienza; o forse rimarrà solo un fugace sentire: quello che permetterà ancora la vita della poesia, nonostante l’autore ci dica che “le nostre lettere sono tutte incipit/del poema che mai venne”.