Tino Di Cicco, Quando i tempi saranno maturi

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Tino Di Cicco 
 

quando i tempi saranno maturi 

Testi poetici 

* 

devo tutto alla gioia

alla mortalità anche del canto

al giorno con i suoi mille occhi

e al cuore solitario della notte 

non ho dovuto scegliere

tra il grano ed il loglio

non ho dovuto scacciare il nulla

dalla casa del divino 

è stato tutto bene 

*

dinanzi a noi il tempo pacificato

alle spalle qualcosa come un dolore 

poteva anche essere diverso il bandolo

per arrivare fino a noi 

chi ha deciso così

sapeva cosa fare 

Nota critica di Giorgio Bonacini 
 

   Il fare linguistico che si svolge nella parola poetica, appartiene a chi legge e a chi scrive con modalità multiformi, in un mondo di mondi (letterari, sociali, artistici, etici, irreali, civili, ecc.) che appaiono in scrittura in  modo lineare, ma di cui nessuno (consapevole o no) può illudersi di afferrare il senso compiuto. La poesia di Tino Di Cicco, pur presentandosi senza evidenti sperimentalismi, ha una precisa coscienza di essere linguaggio altro, non codificato da un’ immediatatezza che è solo appa- renza: perché per l’autore, scrivere o dire è “come difendere nella tua balbuzie/il fremito del logos”. Una dimensione, quindi, in cui la forma dei sentimenti che vengono detti, non nasce dalla superficie di una parola chiara e univoca, ma nelle profondità di un balbettio, un farfugliamento, uno sgretolamento in cui la voce, che dovrebbe pronunciare il discorso, ne autentica e ne concentra le sue tante possibilità: i battiti che fremono nella ricerca del senso.

   E in queste poesie ciò è reso reale con una leggerezza di pensiero che si avvicina molto all’haiku: alle manifestazioni zen, in cui l’andamento obliquo della mente è fonte di conoscenza.: “se puoi guardare il cielo/ senza ridurlo a te/allora sei il cielo”. Ecco il tocco, in cui nulla di arti- ficioso appare, ma nemmeno nulla di ingenuamente spontaneo: perché la ricerca poetica è rigorosissima e si avvale di un’autoriflessione e di uno sguardo sul mondo senza sbavature. La meditazione nasce da una contem- plazione lenta, fatta di piccole scalfitture da cui filtrano sguardi interiori, affioramenti particolari di chiara consapevolezza:“potevo essere un papa- vero/invece parlo./potevo pensare come la luna/invece sogno con la gram- matica nel cuore”. Di Cicco sa che la conoscenza che si ricava dal pensiero poetico, che è data dalla scrittura, è attenzione a non tuffarsi in modo maldestro, a non debordare dai limiti che stanno nel suono, nello sguardo, nel movimento, negli attriti con cui il poeta si confronta.

   E’ necessario, innanzitutto, trovare la parola significativamente valida per quel momento. Per un poeta è certamente importante lo sguardo, ma questo non deve mai ostacolare la presa sul reale, che è creazione e scoperta, perdita e impossibilità. Il reale non può aderire a se stesso se il poeta non vi si immerge completamente, cioè “se prima tu/non perdi te”. Ma tutto questo con la lucidità, che Di Cicco mostra di avere, che non si può essere altro da ciò che siamo, e che è la poesia a renderci più disponibili perché “non sapendo volare/ camminammo//ma senza rinnegare il cielo”.