Silvia Comoglio, Farfalla

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Silvia Comoglio, “Farfalla” [1][2]

Nota critica di Marco Furia

Un’ aria che parla

Davvero l’ “aria” “parla” nei versi di Silvia Comoglio, forse come accade tra un battito e l’ altro delle ali d’ una farfalla, leggiadro insetto da cui il componimento in parola prende nome: un’ aria a tratti rarefatta, a tratti densa, talvolta tersa, secca, talaltra ricca di vapori, di umide fragranze.

Se il “filo della voce” suscita l’ interesse della poetessa (“della voce”, si badi, non soltanto della lingua), la sua scrittura, sempre rivolta ad accettare le sfide che ogni verso propone, riesce ad offrire non ambigua testimonianza di come si possa fuggire da certi vieti schemi senza negarne a priori le forme, di come, insomma, si possa ben continuare a parlare (e scrivere) senza rivolgersi a quell’ inarticolato nulla che assieme alla malattia annienta l’ infermo.

Occorre un altro dire, quello del poeta.

Egli parla, dunque usa uno strumento, ma non allo scopo di costringere in prigionia: al contrario, per offrire a chi ascolta possibili vie di scampo.

I canoni grammaticali, così, vengono modificati dall’ emergere di un’espressione ordinata ma diversa, in cui colori, suoni, simboli, risultano, più che effetti di un divenire linguistico, elementi inseparabili dalle parole assieme alle quali giungono ad esistenza, come ben dimostra la pronuncia “è il pianto della luce / è l’ ùltima memoria”.

Con cadenze efficaci, incisive, esito d’ incessante lavoro su materiali linguistici rivolti a porre in essere possibili condizioni d’esistenza diverse dall’ usuale, Silvia Comoglio riesce nell’ intento di creare una inconsueta consuetudine in cui il lettore vive, verso dopo verso, con naturalezza.

D’ inedita familiarità, insomma, ci viene fatto prezioso dono.