Aldo Ferraris: Danza di nascite, Azimut 2006

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Nota critica di Rosa Pierno

 

Il mito della creazione raccontato con coppie antinomiche: caos/ordine, grande/piccolo, fuga/ritorno, ma soprattutto qui il mito più che quello della creazione è quello della impossibile coincidenza tra una natura senza limiti e la forma del corpo di donna e tra corpo e mappa. Delimitare è azione tutta umana. E Ferraris molto spende per descrivere il senza limite, ciò che non si coglie con un solo sguardo nel costante, reiterato, tentativo di dare definizioni, di disegnare un mondo che abbia precisi confini e nomi. Il tentativo cogente è quello di riconoscere nelle arcigne forme della natura e delle sue disumane forze, il riconoscibile, l’amabile corpo di donna, solo secondariamente portatore anche della funzione di progenitura. Prima dell’uso, si direbbe che ci sia il riconoscimento, il ricondurre ciò che è sconosciuto a ciò che è familiare: “la parte oscura del capezzolo da cui sgorga il mare”. Vi è intensa la ricerca di tali corrispondenze (terra/corpo/mappa): “L’impronta del tuo largo sonno è valle e sentiero/ filo di desiderio che si srotola come vento dai tuoi fianchi”. La ricerca di tale corrispondenza è punto focale per il poeta: la corrispondenza fonda l’unità della realtà con la poesia. Vi è uno scarto preciso tra una fase in cui ancora manca la parola: “la proteggi dall’odio di un nome non ancora pronunciato/ un nome dalle vocali come aghi di silenzio nella gola” e una fase in cui si aprono le infinite possibilità di nominare. Con la parola si inaugura anche l’illusione e il disinganno: “consapevole dell’inganno di ogni tua singola voce”. Metamorfosi e infiniti stati del possibile confondono le acque, fanno tremare la terra sotto i piedi. Si direbbe che il possibile è un morso nella carne. Se qualunque cosa può essere, siamo di fronte soltanto ad apparenze: “Evoca in me il corpo di chi mi ha vissuto diverso/ la corteccia che ha inciso le mappe delle mie traversate,/ scrivani d’argilla e piume traducono il tempo in forme/ che tu modelli con dita e nomi mai simili a sé”. Un altro tema importante per Ferraris è, infatti, il mutamento. Tutto il testo si trasforma sotto gli occhi del lettore: scrittura come atto metamorfico, che può cogliere ciò che dapprima sembra indefinibile nella sua variabilità. Scrittura si fa duttilissimo strumento che segue e registra. E coinvolto nell’atto metamorfico non è soltanto l’oggetto indagato, quale che sia: “La ferita da te inferta trasuda la pietà dell’arma è ruga incancellabile nella noce dal palato di miele” ma è anche l’autore stesso, che intercettiamo in diversi stati. Anche il poeta ha le sue strategie: “La via dove inseguire una tregua/ e rinunciare per sempre a se stessi”. Oppure una strategia in cui l’uomo si assoggetta alle leggi naturali, diminuendo al massimo la distanza che lo rende diverso da lei: “Ogni minuta presenza che obbedisce/ alla tua dispersa bellezza sa il bisogno/ non la ragione”. Adattarsi al suo ritmo, essere consapevoli che siamo nulla nel tempo illimitato: “Calarsi nell’abisso del nutrimento”…“ è “piegare alla grandezza le stagioni”. L’uomo deve affrontare selve e dirupi e ha ricevuto solo il piacere per lenire le sue ferite. Eppure, l’uomo è dalla natura che viene. Siamo nel tema centrale del libro di Ferraris: il dialogo con la natura : “qualcosa che è tuo e in me si fa esilio”. E tale dialogo, il poeta riesce a trasmutarlo in coincidenza: “Bottone dopo bottone ti svelerai”...”assenza dopo assenza farai l’amore”. Trascinare la natura ad assumere sembianze umane, vorrà dire per il poeta raggiungere la meta: natura a umana misura!

 

Testi poetici

 

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Il percorso che mi circonda è quello
del seme, il raspare di radici neonate
come rami ai battenti del cuore.
Il percorso che scende nelle vene e sale

nei tronchi del respiro, prossimo
alle nervature di una nascita antica.
La via dove inseguire una tregua
e rinunciare per sempre a sé stessi.

 

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Scendere è nell’oscurità dell’acqua
nel suo trascinare per mano il pericolo.
Scendere è nello stillare della luce
tra le dita della guida, nella sua nudità.

Calarsi nell’abisso del nutrimento
è scorticarsi la fronte sul cielo
contemplando il corpo delle tenebre,
è piegare alla grandezza le stagioni.

 

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Volteggia sul paesaggio il tuo mantello di pioggia
disegna anche e spalle di fioriture ingorde ma
l’elsa di ogni goccia nasconde una mano esperta
il pugno senza unghie della tua violenta bellezza.

 

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Ti ho vista nella notte disporre la scacchiera dei mutamenti
ogni regola indivisibile fasciata nel colore che dovrà subire,
le guide d’ira e malinconia riverse come cani al principio
della via del ritorno, gli occhi a squarciare la gola della luna.

 

Aldo Ferraris (1951) vive a Novara. In poesia ha pubblicato La cattedrale sommersa (Rebellato, 1978), Ventidue mutamenti dell’I KING (Tam Tam, 1987), Mantiche (Anterem, 1990), Codici (Anterem, 1993), Horus, parola improvvisa (nell’antologia: 7 poeti del Premio Montale – Scheiwiller, 1993), Grande corpo (Anterem, 1997), L’orgoglio dell’assenza (All’antico mercato saraceno, 1999), Acini di pioggia (Gazeo, 2002), Nulla sarà perduto (Archivi del ‘900, 2004). Suoi testi sono apparsi sulle riviste “Anterem”, “Atelier”, “Capoverso”, “Galleria”, “Gradiva”, “Hortus”, “La Clessidra”, “Microprovincia”, “Niebo”, “Pagine”, “Pianura”, “Vernice”.